La forza internazionale e la difesa comune europea

Non possiamo dire con certezza quando finirà la guerra in Ucraina. Ma possiamo affermare che, a quasi quattro anni dall’invasione su vasta scala da parte delle forze russe, gli sforzi della comunità internazionale per porre fine alle ostilità non sono mai stati così evidenti e decisi.
Il percorso di pacificazione del conflitto ucraino potrebbe accompagnarsi, auspicabilmente, a una definizione più chiara di ciò che potrebbe essere la difesa comune europea. In questi mesi l’Europa è stata più volte avvertita dall’alleato riluttante statunitense sulla necessità di doversi arrangiare in futuro per quanto riguarda la propria sicurezza.
Ora che ha preso forma una nuova proposta americana, vagliata dagli ucraini, anche gli europei hanno sottoscritto un proprio documento. Tra gli impegni condivisi per garantire all’Ucraina una pace giusta torna a fare capolino l’idea della forza multinazionale da dispiegare a tutela del futuro accordo di pace.
Potrebbe essere un primo test per la futura difesa europea, da cui l’Italia non dovrebbe sfilarsi come sta facendo intendere in questi giorni. Qualcosa, tuttavia, è cambiato anche nell’atteggiamento di Roma perché, rispetto alla precedente proposta della creazione di una forza di interposizione a trazione anglo-francese, oggi ci sono garanzie di assistenza e supporto degli Stati Uniti.
Together with partners, we are working not only to stop the bloodshed, but to change the situation along Russia’s borders – so that there is no opportunity to start another war. It is also about making Russia finally learn to live by the rule of law. And it will only work if… pic.twitter.com/3Bm7dntDYt
— Volodymyr Zelenskyy / Володимир Зеленський (@ZelenskyyUa) December 16, 2025
Una condizione che può sicuramente risultare convincente anche per il governo italiano così attento all’erratico incedere nella politica internazionale di Donald Trump. Ma prima di soffermarsi sulle opportunità dell’Italia nella partecipazione a tale missione è bene pensare alla forza multinazionale in sé.
Siamo in uno stato di eccezionalità perché è evidente che il diritto internazionale sembra non contare più: in questo momento l’Onu sembra essere completamente escluso dalla questione. E in primis Trump e Putin se ne fanno beffe. A questo va aggiunto che circola una sostanziale diffidenza in Europa nei confronti dei russi e delle loro promesse.
Una missione internazionale si troverà a muoversi in un teatro ad elevato rischio di incidenti (non è un caso, infatti, che uno dei temi dirimenti sia legato alle regole d’ingaggio, ovvero a come e quando i soldati di un’ipotetica missione potrebbero agire).
La futura missione non sarà il classico peacekeeping, quello dei caschi blu che ad esempio operano oggi nel sud del Libano per la missione Unifil a tutela del governo libanese e per monitorare il rispetto degli accordi di pace oltre che per disarmare gruppi armati.

Secondo una storica classificazione dell’ex segretario delle Nazioni Unite Boutros Ghali vi sono tre tipi di missione con forze di pace: il peacemaking mira a ottenere un accordo politico; il peacekeeping ne garantisce la stabilizzazione attraverso una presenza non coercitiva; il peace enforcement impone il rispetto degli accordi con l’uso autorizzato della forza.
Applicati su casi concreti il peacemaking sono stati gli Accordi di Dayton nel 1995 per la Bosnia, un esempio di peacekeeping fu la missione Unprofor (1992-1995), dispiegata in tutta l’ex Jugoslavia, con consenso formale delle parti ma che fu incapace di fermare le violenze (Srebrenica). Infine il peace enforcement è stato l’intervento NATO in Kosovo nel 1999 che portò al ritiro serbo dal Kosovo e al successivo dispiegamento KFOR.
Quella immaginata in questo momento per l’Ucraina è una forza di stabilizzazione post-bellica a guida europea, sotto l’egida degli Stati Uniti, con capacità di peace enforcement e funzione primaria di deterrenza estesa, destinata a garantire l’attuazione di un accordo di pace in assenza di adesione Nato.
Baltici, scandinavi, francesi, tedeschi e britannici potrebbero farne parte. E viste le grandi difficoltà e asperità che presenta il teatro sarebbe una prova generale dal punto di vista politico-militare per testare le capacità europee sia operative sia dal punto di vista della collaborazione.
Vi è poi una portata ideale: se intendiamo, come ormai la quasi totalità dei leader europei ha fatto, che la guerra in Ucraina è una sfida esistenziale anche per l’Unione europea, allora una missione internazionale incarnerebbe l’idea di una difesa degli ideali per cui i 27 stanno ancora insieme. L’Italia non può permettersi una posizione attendista: se la forza multinazionale sarà il banco di prova della futura difesa europea, Roma deve farne parte.
La partecipazione italiana non dovrebbe essere vissuta come un azzardo, ma come un investimento politico e strategico, anche in forme compatibili con la tradizionale postura del Paese; ad esempio contribuendo alla difesa dei cieli ucraini, come già avviene nello spazio aereo di Romania ed Estonia.
Sarebbe una scelta coerente con quanto affermato dal ministro della Difesa Guido Crosetto all’indomani delle parole di Donald Trump sull’inutilità e la debolezza dell’Europa: «Dovremo pensare noi alla difesa europea». E allora perché non iniziare proprio dall’Ucraina, difendendo non solo un Paese aggredito, ma anche quello stile di vita e quell’insieme di valori su cui statisti e politici lungimiranti settant’anni fa hanno costruito l’idea di un’Europa unita?
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