Evin, il carcere simbolo del regime iraniano

Evin è il nome di un quartiere residenziale nella parte settentrionale della grande capitale iraniana, a ridosso della lunga catena montuosa dell’Alborz. Da qui, dalla sua parte vecchia, ricca di frutteti e giardini che contrastano con l’aridità del territorio circostante, si può salire verso Darakeh, che con Darband si contende il luogo preferito di svago per gli iraniani alla ricerca di frescura, di ristoranti e sale di narghilè e anche di intimità, dove pure il regime mostra segni di rilassatezza.
Ogni iraniano che percorre quel tragitto sa di varcare un confine invisibile, fatto di paura e di terrore, di vessazione e oppressione, poiché Evin è l’area che dai primi anni Settanta ospita l’omonimo famigerato carcere, che ha visto passare tra le sue celle, prima gli oppositori politici dello Shah, arrestati dalla Savak, la sua polizia segreta, addestrata dalla CIA e dal Mossad poi, a partire dal 1979, quelli della Repubblica Islamica. Non solo i giovani che anche recentemente, ma in un fenomeno carsico e di lungo periodo, hanno manifestato contro lo Stato e sono stati accusati, come gli appartenenti alla fede baha‘i, di «corruzione sulla Terra», di essere «trasgressori dell’ordine morale», un reato fatto inserire nel codice penale per eliminare gli oppositori accusandoli di comportamento antireligioso, ma anche scrittori come Marina Nemat; bloggers come Donya Hosseini o Alessia Piperno e giornalisti, tra i tanti e ultimi in ordine di tempo come Cecilia Sala.
Le carceri non hanno bandiera, né ideologia. Servono indistintamente ogni regime, l’uno opposto all’altro quando si avvicendano al potere. E nelle autocrazie servono per soffocare la diversità, sia essa di idee e di espressione, di credo o di orientamenti sessuali. Ma l’arresto di uno straniero, soprattutto nei sistemi autoritari non sempre è esclusivamente legato all’aver commesso un reato. Sovente serve per lanciare un messaggio di carattere politico al governo al quale appartiene il fermato.
La maggior parte dei casi riguarda iraniani con la doppia cittadinanza verso i quali la forza di pressione di Teheran può essere massima. Diverso invece quello di persone, a maggior ragione se studiosi o giornalisti, di nazionalità europea. Fu così per la francese Clotilde Reiss, accusata di aver preso parte alle proteste del 2009, per la liberazione della quale Parigi dovette pagare oltre 280.000 dollari. Oggi lo è per l’italiana Sala.
Italia e Francia furono i primi due paesi europei a essere scelti da Khatami per riallacciare i rapporti con l’Occidente. Così poi fece anche Hassan Rohani nel 2016 per rilanciare l’economia iraniana, ormai asfittica, fiaccata da decenni di embargo. Più che Parigi, Roma ha sempre avuto un rapporto privilegiato, costante e di fiducia con Teheran, anche nei periodi più bui della recente storia politico-diplomatica, non solo durante la rivoluzione khomeinista, ma pure con l’Amministrazione Ahmadinejad, la quale oltre a mistificare la Storia arrivando a negare l’Olocausto, riscoprì velleità sopite di un obsoleto programma nucleare. Essenziale per l’Italia è sempre stato mantenere aperto il dialogo, sia ai più alti livelli istituzionali, sia attraverso la diplomazia della cultura, che ha sempre consentito a studiosi di frequentarsi e di restare in contatto. E di non far cessare mai la parola.
Poco ancora si sa sulle motivazioni che hanno condotto al fermo della Sala. Diverse invece le ipotesi. Al di là di quelle più semplicistiche che la vedono denunciare attraverso articoli e podcast la violazione di taluni diritti inalienabili da parte della Repubblica Islamica, talmente palesi da non essere spesso identificabili nei veri motivi, ci si deve interrogare su quale sia il messaggio che Teheran, ovvero una parte dell’élite al governo, voglia inviare a Roma.
Il primo, una sorta di avvertimento su quello che in Iran potrebbe essere visto come un cambio di postura della nostra politica estera in Medio Oriente, più filo-israeliana che come in passato filo-araba. E benché gli iraniani arabi non siano, le dichiarazioni dell’Ambasciatore israeliano a Roma con le quali ribadiva che Fratelli d’Italia e il Likud fanno parte della stessa famiglia politica europea, devono avere indotto i più ferventi esponenti anti-occidentali e antisionisti a Teheran a cercare di indebolire le alleanze politiche sulle quali Tel Aviv può contare, soprattutto ora che l’Iran vede drasticamente ridotta la propria capacità di influenza nell’area, senza più gli Houthi, Hamas, Hezbollah o la Siria.
Un secondo motivo potrebbe essere di ordine interno, volto a boicottare le flebili ma pur significative aperture che il nuovo Presidente iraniano aveva intenzione di intraprendere con l’Europa, sulla falsariga di ciò che fecero i suoi predecessori. Cercare una nuova sponda con cui dialogare ora che su tutto, e soprattutto sull’Iran, incombe l’ombra della prossima presidenza Trump. Meccanismi internazionali che vanno intrecciandosi con intricatissime faide interne, fatte di feroci lotte per la conquista del vertice del potere: quello di Guida Suprema del paese, e nei quali, suo malgrado Cecilia Sala, nel suo essere comparsa, è arrivata purtroppo a giocare un ruolo da protagonista. Dal più buio ed evocativo luogo di Teheran. Quello di Evin.
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