Medio Oriente, il primo banco di prova per Donald Trump

Il Medio Oriente è un guazzabuglio e ogni Paese guarda al tycoon con uno sguardo diverso
Donald Trump - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Donald Trump - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Un libico, uno yemenita, un siriano, un sudanese. Non è una barzelletta, sono alcune delle testimonianze portate all’undicesima edizione dell’Abu Dhabi Strategic Debate, che si è tenuta dall’11 e 12 novembre nella capitale degli Emirati Arabi Uniti.

Ad ascoltarli, ci si rende conto di quanto il Medio Oriente sia un guazzabuglio sempre più difficile da districare. La questione israelo-palestinese resta al centro, ma non è la sola. La gente non ne può più dell’instabilità.

Dal taxista al funzionario statale. Tutti vogliono vivere, lavorare, avere una famiglia. Gli stessi leader arabi stanno capendo che a scannarsi non si va da nessuna parte. Prova ne è la Libia che, fino a tre, quattro anni fa, era in piena anarchia, ora comincia a raffreddare la propria bellicosità. Come a dire che anche per uno Stato fallito si può intravvedere una qualche soluzione.

È per questo che gli Stati arabi, nella maggior parte dei casi, non vedono male il ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Rappresenta l’uomo politico, ma non politicante, pragmatico, che mira al deal, perché viene dal mondo dell’imprenditoria, e questo piace ai leader arabi, votati al business.

In Oman, per esempio, sta sorgendo un lussuoso resort a marchio Trump. Per i Paesi del Golfo, se il neo presidente riuscirà a concludere quello che è stato chiamato l’Accordo del Secolo, e a restituire ai palestinesi una parvenza di vita normale, sarà considerato l’uomo giusto al posto giusto.

Scettico il palestinese Daoud Kuttab che, su al-Arabi al-Jadid (sito di informazione del mondo arabo con sede nel Regno Unito, ndr), pone una domanda: «Quando smetteremo, noi arabi, di concordare con i decisori politici di Washington, Londra, Parigi e Berlino, e inizieremo a interessarci di noi stessi e a costruire solide fondamenta locali, regionali e internazionali?».

Le nomine della nuova amministrazione americana, finora quasi tutte pro Israele, preoccupano. Non succeda che Trump finisca col buttare i palestinesi nel tritacarne, strizzando l’occhio alla parte israeliana più radicale che non li considera più degli esseri viventi. Ma gli arabi sanno di poter giocare le proprie carte, perché sono più forti oggi rispetto all’epoca del primo mandato di Trump; non sono allineati, parlano con Putin, parlano con Modi.

Il tycoon non potrà prendere decisioni da solo senza consultarli. Anche perché nel Medio Oriente l’America è percepita in discesa dall’epoca di Obama. Per il mondo arabo l’unica possibilità di risolvere il conflitto israelo-palestinese è quella dei due Stati, nonostante la disuguaglianza territoriale, nonostante la presenza delle colonie, considerata ormai irrisolvibile.

Ci fu in passato chi optava per uno Stato israeliano laico e democratico, rendendosi conto solo successivamente che Israele non avrebbe mai acconsentito, perché la bolla demografica è a favore dei palestinesi, i quali velocemente sarebbero arrivati alla maggioranza numerica, mettendo in discussione il controllo del Paese. In generale, dunque, il mondo sunnita, attraverso gli Accordi di Abramo, ricerca la normalizzazione nei rapporti con Israele.

Diverso il discorso per quello sciita. L’Iran, già colpito dalle sanzioni americane, ne teme l’inasprimento. E come si comporterà Trump nei confronti del Libano, Paese di origine di suo genero? È impensabile che Hezbollah possa aver ragione di Israele. I curdi temono il ritiro delle forze americane dalla Siria del Nordest dove, dal 2012, hanno costituito una regione autonoma de facto, costantemente in pericolo per la minaccia turca. La Turchia si congratula con riserva, condannando fermamente l’operato di Tel Aviv. L’egiziano al-Sisi, desideroso di collaborare con Trump, gli chiede però di contenere l’escalation del conflitto nella Striscia di Gaza.

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