Trump e la sospensione dei dazi, simbolo di dilettantismo

Un mix letale con radicalismo e hybris neoimperiale che sta caratterizzando la politica estera del presidente Usa
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump - Foto Epa/Shawn Thew © www.giornaledibrescia.it
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump - Foto Epa/Shawn Thew © www.giornaledibrescia.it
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Una precipitosa marcia indietro, con la sospensione per tre mesi di tutti i dazi imposti la settimana scorsa, nel famoso «giorno della liberazione», ad eccezione di quelli ulteriormente aumentati nei confronti della Cina. Pochi giorni sono bastati a Donald Trump per cambiare idea e venire meno alla reiterata promessa di non modificare una virgola di quei dazi assurdi e senza senso.

Giorni di fortissime turbolenze finanziarie, preparazione di dure contromisure da parte di molti soggetti sanzionati, a partire dall’Unione Europea, polemiche, liti e finanche insulti pubblici tra membri importanti della stessa amministrazione come Elon Musk e Peter Navarro, il principale consigliere di Trump per le questioni commerciali. Il tutto mentre il crollo delle Borse non si accompagnava alla corsa all’acquisto di titoli del Tesoro statunitense, come normale e fisiologico in queste circostanze, che faticavano invece a essere collocati e vedevano il loro tasso (e il costo del debito Usa) crescere di conseguenza.

A testimoniare la straordinaria perdita di credibilità degli Stati Uniti e la decrescente fiducia degli investitori in un Paese così mal governato. Ed è da questo cattivo governo che dobbiamo partire. La partita delle relazioni commerciali è da sempre terreno di negoziati e scontri tra gli attori del sistema internazionale. Anche nell’epoca contemporanea di liberalizzazione degli scambi e integrazione economica, questa dialettica è stata intensa, complessa e non di rado conflittuale. A dispetto delle leggende di chi celebra la globalizzazione o di chi invece la contesta, essa non ha costituito affatto un processo chiaro, lineare e consensuale.

È normale che le politiche commerciali siano di tanto in tanto ripensate – soprattutto dopo quel che la grande crisi del 2008 ha rivelato – e che attori statuali rivedano le proprie posizioni, vogliano ripensare le proprie politiche industriali, difendere alcuni settori economici strategici o ridurre deficit bilaterali macroscopici. Per questo ci sarebbero le istituzioni preposte, a partire dall’Organizzazione Mondiale per il Commercio, o fora bilaterali e multilaterali ad hoc dove promuovere appositi negoziati. Nei quali la principale potenza mondiale, con l’asset fondamentale rappresentato dal suo impareggiabile mercato, ha in realtà molte leve per imporre le proprie condizioni o raggiungere compromessi a lei vantaggiosi, come abbiamo peraltro ben visto con Biden alla Casa Bianca.

Agire in modo radicalmente unilaterale, punitivo e illogico come ha fatto Trump finisce invece per sperperare questo «capitale di potenza» di cui gli Usa dispongono, destabilizzare un contesto internazionale di suo frammentato e vulnerabile, e aprire nuovi fronti di scontro con gli stessi alleati storici degli Usa, dal Giappone all’Europa, dal Canada al Messico. La grande domanda che è inevitabile porsi è come sia possibile che un presidente statunitense intraprenda simili iniziative e sia poi costretto a fare rapidamente marcia indietro. Risposte logiche, si diceva, è difficile darne.

Come si possono giudicare dazi altissimi, universali, calcolati – pare con l’intelligenza artificiale – utilizzando come variabile primaria il deficit statunitense? Dazi che hanno colpito Paesi poverissimi (il 50% al Lesotho) o addirittura terre abitate solo da pinguini? Che hanno alzato a dismisura il costo delle importazioni da Paesi, è il caso del Vietnam, centrali in quel riorientamento delle catene di valore transnazionali necessario per procedere al disaccoppiamento dell’economia statunitense da quella cinese, uno dei primari obiettivi di Trump?

L’impressione è che la risposta stia nel mix letale di dilettantismo, radicalismo e hybris neoimperiale che caratterizza per il momento la politica estera della seconda amministrazione Trump. Approssimazione nella definizione delle politiche e dei loro strumenti; ostentata volontà di aumentare l’influenza degli Usa al punto da indicare come obiettivo addirittura l’espansione territoriale; lettura e rappresentazione delle relazioni internazionali con gli schemi di una presunta realpolitik – binaria, sempliciona e assai poco realistica – dove tutto è subordinato alle logiche di potenza e alla competizione con la Cina. Un mix, questo, da apprendisti stregoni, le cui possibili conseguenze abbiamo visto bene in questi giorni.

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