Tra discriminazione e diseguaglianze: le ombre nell’Argentina di Milei

Alcune settimane fa, circa un milione di persone hanno manifestato nelle piazze di Buenos Aires in occasione della Marcia dell'Orgoglio Antifascista e Antirazzista.
L’evento, organizzato dai movimenti popolari, è stato una risposta al discorso carico di incitamento alla discriminazione e all’odio razziale e di genere, tenuto dal presidente argentino Javier Milei al World Economic Forum, a Davos, in Svizzera, a gennaio.
In quella circostanza, Milei ha attaccato alcuni dei principali valori progressisti – il femminismo, l’ambientalismo e l’identità di genere –, accusando le persone trans di «danneggiare irreversibilmente i bambini sani attraverso trattamenti ormonali e mutilazioni». Insomma, un campionario dei peggiori pregiudizi verso la comunità LGBTQIA+. Nell’occasione, Milei, forte dell’appoggio ricevuto dai leader dell’estrema destra globale (Donald Trump, Benjamin Netanyahu, Viktor Orbán e Giorgia Meloni), ha anche approfittato per difendere le dure politiche di austerità economica del suo governo.
Se da una parte sono diminuiti il deficit fiscale e l’inflazione (almeno quella nominale), dall’altra parte, è il dato tragico, sono aumentate la miseria, la povertà e la diseguaglianza. È il costo sociale da pagare al pacchetto di misure estreme varato da colui che nel solco dell’anarcoliberismo ama rappresentarsi come il «topolino» che rode lo Stato dal suo interno. È un tratto dominante dei principali leader di destra dagli anni Novanta del secolo scorso sino ai giorni nostri. Pensiamo a Berlusconi o a Trump, i quali si presentano come gli alfieri della libertà in tutte le sue espressioni e dello «stato minimo», salvo poi, una volta al potere, usare lo stato per risolvere i conflitti di interessi o piazzare la famiglia in prestigiosi incarichi politici, come è accaduto con Bolsonaro in Brasile.
In tale contesto, gli investimenti infrastrutturali cosi come le politiche pubbliche nei settori dell’educazione, sanità, ricerca sono pressoché nulli. E i «giovani cervelli» argentini sono in fuga verso i paesi confinanti (Brasile, Uruguay etc.). A peggiorare ulteriormente la situazione c’è un’altra decisione di Milei che, sulla scia di Trump, ha deciso l’uscita dell’Argentina dalla Organizzazione Mondiale della Sanità.
In assenza di un progetto di sviluppo nazionale, il quale passa necessariamente per il valore aggiunto dato da grandi investimenti in scienza e tecnologia, siamo di fronte alla classica politica di subalternità, chiaramente orientata alla produzione primaria, con l’obbiettivo di mantenere l’Argentina nella condizione di paese «dipendente-associato» all’attuale ciclo capitalista. Il rischio è un ulteriore aumento delle disuguaglianze e la scomparsa della classe media. Quest’ultimo, in particolare, è un problema strutturale dei paesi in via di sviluppo. In assenza di una classe media, diminuisce il potere di consumo interno, esponendo ulteriormente il paese alle speculazioni dei mercati finanziari e alla dipendenza dai paesi a capitalismo avanzato.
Si tratta della tirannide dei mercati, i quali nell’euforia del momento valutano positivamente il Milei o il Bolsonaro di turno, salvo poi scaricarli quando percepiscono sul medio periodo che gli investimenti in politiche pubbliche e in politiche salariali sarebbero stati più adeguati a garantire un livello dei consumi accettabile. A tal proposito, basta ricordare che già nei primi mesi del governo brasiliano, la moneta (Real) iniziò a svalutarsi sul dollaro e sull’euro, a testimonianza di una perdita di fiducia dei mercati verso le politiche di Bolsonaro.
Insomma, non promette nulla di buono il governo Milei, tra politiche economiche tese ad aumentare la diseguaglianza e discorso di odio, sostenuto dal suo partito, nei confronti delle minoranze sessuali e delle politiche di parità di genere.
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