Il bullismo e il suicidio giovanile

Un altro banco vuoto a scuola e un’altra vittima che abbandona la vita. Il suicidio di Paolo da Latina, quattordicenne, riapre il capitolo perverso del bullismo che non si placa. Ed è in adolescenza che emerge con puntuale frequenza la violenza devastante dei bulli. È in questa fase della crescita che un bambino perde il sentimento dell’onnipotenza e si scopre fragile e vulnerabile. Basta un niente per far crollare un supereroe, una semplice smorfia di noncuranza della migliore amica, per perdere la fiducia.
Sarà andata così anche per Paolo che, a leggere le cronache, si dev’essere sentito distante dal mondo e solo di fronte alle sue paure. Ci saranno state anche parole velenose dei compagni rispetto a una sessualità tutta da scoprire, che lo hanno fatto fuggire dalla vita. Ma da quello che conosco degli adolescenti, è la solitudine che conta di più in questa epoca, forse accumulata nel tempo con alcune ferite interne che oscurano le «mappe» necessarie ad orientarsi e andare avanti, e costringono invece a navigare a vista.
Sono più o meno così le storie dei tanti adolescenti che stanno male e vengono travolti dal disagio o si imbattono nel bullismo e nei suoi persecutori. Si credono braccati, allora, soprattutto sconfitti, con un’ansia a mille e l’autostima a zero, non di rado in compagnia della disperazione. Difficile in queste condizioni affrontare un anno di scuola e rispondere alle aspettative di insegnanti e genitori. Molti si sentono in colpa per come si vedono allo specchio o per quello che possono dire gli altri. Si percepiscono prede o soggetti senza diritto all’esistenza.
Non c’è bisogno per star male di ferite fisiche o di essere malmenati, bastano e avanzano le derisioni e le burla che esaltano il bullo e fanno divertire i suoi complici ma anche quelli che assistono e ridacchiando di nascosto. L’andare a scuola diventa problematico perché è un mettere in scena una commedia di finzioni e sentirsi bersaglio da colpire, oppure vittima senza darlo a vedere. Invivibile una vita così, fatta per lo più di violenze verbali che ti devastano più delle percosse. Lo diceva nel 2013 Carolina Picchio, anche lei quattordicenne e suicida tra le prime per cyberbullismo, quando scrisse: «Le parole fanno più male delle botte».
Ma a distanza di 12 anni dalla sua morte, il copione sembra ripetersi uguale. E ti chiedi cos’è cambiato oggi se trovi adulti che del bullismo conoscono poco o nulla e non si preoccupano di educare al rispetto e alla legalità, che non contengono le prepotenze dei figli e ritengono il bullismo ancora una «bravata giovanile».
Sbalordisce questo minimizzare un male che uccide e fa pensare che sfugge ancora come dietro ogni adolescente che si toglie la vita ci siano adulti a vario titolo responsabili. In altre parole non c’è solo il bullo di turno da punire, ma un’intera comunità educante da sensibilizzare, e, come dice la legge nr. 70/2024, da formare a scuola sulla piaga del bullismo. Abbiamo un urgente bisogno di una comunità capace di attivare uno sguardo attento sulla sofferenza dei figli propri e altrui, e in grado di ascoltare il dolore silenzioso di chi sta male.
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