Azione e campo largo, al progressismo non bastano gli abbracci

Sull’abbraccio fra Renzi e Schlein alla «Partita del cuore» si è scritto molto, forse esagerando un po’ sulla fattibilità e i tempi della costituzione di un «campo larghissimo» nazionale che possa competere alla pari con la destra di governo. L’unica cosa che si può dire è che sarebbe fisiologico che le opposizioni si trovassero unite nel contrastare la maggioranza, come normalmente accade in democrazia, invece di passare il tempo con lotte intestine e veti fra leader.
Alcune delle ultime iniziative hanno effettivamente mostrato segni di ricomposizione della galassia di minoranza, anche se Azione resta un po’ ai margini. Forse ciò che si può realizzare nel breve termine è qualche alleanza per le prossime regionali in Emilia-Romagna, Umbria e verosimilmente Liguria, ma per il resto bisogna andare cauti. Che l’improvviso afflato di Renzi per il centrosinistra non sia dettato dalla sconfitta alle elezioni europee e dagli spazi sempre più ristretti di un centro nel quale Forza Italia ha dimostrato di saper tenere bene le posizioni, è difficile da credere.
Se il listone Stati uniti d’Europa fosse arrivato al 7-8% e avesse superato gli azzurri di Tajani, forse l’abbraccio con la Schlein non ci sarebbe stato. A pensar male, è vero, si fa peccato, ma... Ad ogni buon conto, per ricomporre il puzzle delle opposizioni bisogna considerare almeno tre fattori.
Il primo è la personalità di Renzi: l’ex premier ed ex leader del Pd non sa stare lontano dai riflettori. Ha bisogno di rientrare in gioco e sa che al centro non c’è spazio per il suo progetto. In una logica di coalizione, invece, può esercitare come ai tempi del Conte II il «potere di ricatto» che lo portò prima a logorare il governo giallorosa, poi a farlo cadere. Se il «campo larghissimo» vincesse le prossime elezioni politiche, lo farebbe verosimilmente di stretta misura, dunque i voti e i seggi renziani (pochi o tanti) sarebbero indispensabili. Il leader toscano avrebbe in pugno la situazione.
Poi c’è il suo grande antagonista, Conte. Anche lui non riesce a non occupare la scena: sogna di tornare a Palazzo Chigi, detesta gli «usurpatori» (da Draghi a Meloni) che hanno preso il suo posto alla presidenza del Consiglio, ma soprattutto ha ricevuto anch’egli un colpo ferale alle europee (ecco perché ora Renzi dice che la coalizione deve essere guidata da chi prende più voti, visto il M5s di Conte non è più competitivo tanto da agganciare il Pd). Conte e Renzi si detestano, ma in politica è il realismo a prevalere. Il leader toscano, perciò, è oggi disponibile a dialogare con tutti, mentre il capo pentastellato pugliese vorrebbe farlo, ma ha paura di scottarsi e di essere persino sconfessato dai suoi (che non lo hanno sostituito dopo le europee per mancanza di alternative).
Il terzo fattore dovrebbe essere la Schlein, che però sta costruendo la leadership del Pd nel «campo larghissimo» semplicemente guadagnando voti e con un’offerta che (vedendo le liste elettorali delle scorse europee) è molto variegata, forse anche troppo. Quindi, il vero terzo punto sul quale la coalizione del futuro può costruirsi è Calenda, il quale però diffida di Renzi, non vuole avere a che fare con Conte e teme di perdere i pochi consensi centristi acquisiti (oltre al fatto che in Azione ci sono alti dirigenti che vengono da FI e che, in caso di svolta a sinistra, potrebbero anche volerci tornare).
L’unico modo per costruire un «campo largo o progressista» pare quello di iniziare con accordi locali (regioni, Comuni) e arrivare non tanto ai referendum abrogativi (per i quali il quorum potrebbe non scattare) quanto invece per il referendum costituzionale sul premierato. Se la Meloni lo perdesse, lo schieramento avversario potrebbe trovare la forza per unirsi – sia pure tatticamente, su un programma minimo comune – e provare a correre unito contro la destra, alle prossime politiche. Ma il percorso è molto più complesso di quanto sembri, perché gli abbracci in politica si regalano a migliaia, ma contano solo le intenzioni e i voti.
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