Quell’asimmetria profonda nel rapporto Cina-Europa

Il 25° summit Cina-Unione Europea, tenutosi a Pechino il 24 luglio scorso, si è svolto in un clima tanto formale quanto freddo. Doveva essere l’occasione per rilanciare le relazioni bilaterali in occasione del 50º anniversario del riconoscimento reciproco, ma si è trasformato in un’esibizione di distanza strategica. Bruxelles e Pechino hanno scambiato dichiarazioni di principio, espresso il desiderio di «cooperazione», e reiterato le consuete divergenze, come se ripetere le stesse formule bastasse a superare le fratture che si sono aperte negli ultimi anni.
Il vertice, già accorciato da due giorni a uno solo, ha messo in evidenza una verità difficile da ignorare: Cina e Unione Europea non parlano più la stessa lingua, né sul piano commerciale, né su quello politico. Mentre Xi Jinping ha esortato l’Europa a «scegliere strategicamente» e a non farsi trascinare in una nuova Guerra Fredda, i leader europei – Ursula von der Leyen, António Costa e Kaja Kallas – hanno fatto capire che la pazienza strategica è agli sgoccioli. L’Unione, oggi, si presenta al tavolo con una postura diversa: meno fiduciosa, più conflittuale, ma ancora legata al dogma del «dialogo».

I dossier aperti sono numerosi, e tutti spinosi. Sul piano economico, il deficit commerciale con la Cina ha toccato la soglia record di 305 miliardi di euro nel 2024, generato soprattutto da esportazioni cinesi nel settore automobilistico e delle energie rinnovabili, dove i sussidi di Stato gonfiano artificialmente la competitività delle imprese. L’Ue accusa Pechino di pratiche sleali, di chiusura del mercato interno, di attacchi alla sicurezza economica attraverso il controllo di risorse strategiche e tecnologie sensibili. In risposta, Xi difende la «normalità» del modello cinese, denuncia le «barriere protezionistiche europee» e chiede che l’Europa non si faccia strumentalizzare dagli Stati Uniti.
Anche sul fronte geopolitico, i segnali sono tutt’altro che incoraggianti. L’Unione ha sollecitato Pechino a esercitare una reale pressione su Mosca per fermare la guerra in Ucraina, ma la risposta cinese – tutta fatta di ambiguità e richiami all’equilibrio – è sembrata più che altro un modo elegante per prendere tempo. A preoccupare Bruxelles è anche il sostegno indiretto che la Cina continua a fornire all’industria bellica russa attraverso il commercio di beni dual-use, eludendo le sanzioni. E mentre gli europei discutono, le banche cinesi entrano nel mirino delle nuove misure restrittive dell’Ue.

Quanto ai diritti umani, Hong Kong, Xinjiang, Taiwan: il silenzio. L’Ue li ha menzionati, certo, ma come da protocollo. Nessun affondo, nessuna condizionalità concreta, nessuna proposta incisiva. È l’altra faccia del de-risking europeo: si alzano i toni sul commercio, ma si abbassano quando si toccano i principi. Una dissonanza strategica che consente a Pechino di apparire come un interlocutore responsabile e prevedibile, mentre prosegue - senza ostacoli reali - nel riadattare l’ordine multilaterale alle proprie logiche di potenza.
Il paradosso è evidente. L’Unione accusa la Cina di agire come una potenza revisionista, ma si ostina a trattarla come un interlocutore riformabile. Chiede reciprocità, ma accetta squilibri cronici. Rivendica la propria autonomia strategica, ma si divide al proprio interno su ogni dossier. In questo senso, il summit è stato utile: ha fotografato un’asimmetria profonda. Pechino sa cosa vuole e gioca di sponda tra Bruxelles e Washington. L’Europa invece continua a cercare un equilibrio tra valori e interessi, senza decidere se vuole essere una potenza normativa o solo un mercato regolato. In questo contesto, si fa strada tra alcuni stati membri l’idea di rinforzare lo strumento europeo anti-coercizione, che consentirebbe di reagire più rapidamente a pratiche commerciali ostili senza dover passare da procedure unanimi.
Forse il summit non è stato inutile. Ma è stato certamente più utile a Pechino, che può vantare la propria apertura al dialogo mentre continua a reindirizzare le catene del valore globali secondo logiche sempre più cinesi. L’Ue, invece, rischia di restare elegante, coerente… ma irrilevante. Il prossimo test, ora, sarà la reazione dell’Ue alle possibili misure di ritorsione cinesi nel caso in cui Bruxelles decida di introdurre tariffe sulle auto elettriche provenienti dalla RPC. Finché l’Europa non deciderà se prioritizzare la competizione o la contenzione, questo «dialogo» resterà un rito più che una strategia.
Antonio Fiori, docente di Storia e Istituzioni dell’Asia, Università di Bologna
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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