Nell’Afghanistan dei talebani il buio per i diritti delle donne

Per Hibatullah Akhundzada, leader dell’Emirato Islamico, è il «Giorno della Vittoria». Per la popolazione è il giorno della perdita della libertà e della speranza per il futuro. Quattro anni fa, esattamente il 15 agosto, i talebani riprendevano Kabul. Una data diventata il simbolo della vergognosa e frettolosa fuga dall’Afghanistan della coalizione internazionale.
Ma tutte le iniziali promesse di moderazione e inclusione del governo «de facto» sono state disattese e il Paese asiatico è via via sprofondato nell’oscurità. A farne le spese, sono soprattutto le donne e le ragazze che subiscono un apartheid di genere, e le minoranze religiose ed etniche (hazara, sciiti, cristiani, sikh) che vengono discriminate. Quasi cento editti hanno gradualmente escluso le donne dalla vita pubblica, privandole delle libertà fondamentali, tra cui l’istruzione oltre la scuola primaria, e l’impossibilità di uscire di casa se non accompagnate da un tutore maschio.
Per chi trasgredisce, è stata ripristinata la lapidazione. Su tutto questo vigila il Ministero per la propagazione della virtù e la prevenzione del vizio. Un nome che non lascia adito a dubbi. Qualsiasi voce di dissenso viene messa a tacere; i giornalisti silenziati con arresti arbitrari. Gli analisti sostengono che esiste un rischio concreto di «talebanizzazione», ovvero di emulazione da parte di altri Paesi dello stesso atteggiamento restrittivo e repressivo. Per esempio, limitazioni alla libertà delle donne sono state imposte anche dagli Houthi dello Yemen.
Secondo Human Right Watch, con 3,1 milioni di persone a rischio fame, l’Afghanistan sta affrontando una delle peggiori crisi umanitarie a livello mondiale, anche a seguito della riduzione dei programmi di aiuti da parte di Paesi donatori, in primis gli Stati Uniti e il Regno Unito. Questo ha portato alla chiusura di più di 400 strutture sanitarie, 400 centri per la malnutrizione acuta e 300 cliniche impegnate nel soccorso alle sopravvissute alla violenza di genere.
La situazione è ulteriormente aggravata dal rimpatrio forzato di quasi 2 milioni di rifugiati afghani, espulsi da altri Paesi. Da gennaio di quest’anno, oltre 350mila rifugiati sono stati costretti a lasciare il Pakistan, in base al «Piano di rimpatrio degli stranieri illegali» stilato nel 2023. Anche il Tagikistan ha intimato ai rifugiati afghani di andarsene. Diversa la posizione dell’Australia, dove il vice direttore generale del Refugee Council, Adama Kamara, ha affermato che «il rimpatrio forzato di persone verso un Paese dove potrebbero essere soggette a persecuzione, non è solo inaccettabile, ma rappresenta anche una chiara violazione dei principi di protezione internazionale».
China FM in Afghanistan, offers to deepen cooperation with Taliban rulers https://t.co/dC6uClO8eJ
— Al Jazeera English (@AJEnglish) August 20, 2025
Il governo australiano ha ricevuto oltre 250mila richieste di visti umanitari, di cui oltre 25mila sono stati concessi dopo la caduta di Kabul. La comunità occidentale, completamente fagocitata dall’Ucraina e da Gaza, ha messo l’Afghanistan in stand by. Diverso l’atteggiamento della Russia, che il mese scorso ha riconosciuto come legittimo il governo afghano. Anche la Cina sta rafforzando i suoi legami economici e diplomatici con l’Emirato. A seguito di un incontro con il ministro degli Esteri indiano, i talebani hanno definito Nuova Delhi un «partner regionale significativo». L’8 luglio di quest’anno la Corte Penale Internazionale ha emesso dei mandati di arresto per Akhundzada e per Abdul Hakim Haqqani, presidente della Corte Suprema dei Talebani, con l’accusa di crimini contro l’umanità, tra cui la persecuzione di genere e contro la comunità Lgbtq+.
L’Emirato ha respinto le accuse, e difficilmente si riuscirà ad arrestare Akhundzada asserragliato nel suo quartier generale di Kandahar e poco incline a viaggiare all’estero, ma la sentenza ha un alto valore simbolico. Soprattutto in un momento in cui molti Stati e l’Onu stanno cercando di riportare i talebani all’interno della comunità internazionale chiudendo un occhio sulla questione femminile.
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