Smartphone in classe: il punto non è vietarlo, ma educare all'uso

Solitamente quando si affronta il tema del digitale nel dibattito pubblico tendiamo a vivere con una certa preoccupazione sia la presenza di dispositivi digitali nei contesti quotidiani sia la sottrazione di tempo e attenzione che questi riservano alle mansioni di tutti i giorni.
Questo atteggiamento mentale vale in particolare quando l'uso del digitale è associato al mondo dell'educazione. Per tale motivo, ciclicamente, si torna su un tema che ormai è divenuto classico: quello dell'uso dello smartphone in classe. Sollecitati magari dalla presa di consapevolezza di un'ennesima scuola che a inizio anno scolastico decide di rendere una regola il divieto di utilizzo del cellulare in aula. L'uso del cellulare in classe non è «normale» per questo va normato.
Quello che resta di questo dibattito sul divieto dello smartphone in classe è solitamente una polarizzazione ideologica tra chi è a favore (molti) e chi è contrario, senza tener sufficientemente conto di come educarci al digitale passi anche dall'essere consapevoli che i cellulari, e ogni altro dispositivo, sono un mezzo e non un fine. Il punto è quindi non tanto proibirne l'uso ma regolare uso e non uso in relazione al contesto, in questo caso quello di apprendimento. Saper dire quindi quando si fa scuola con il cellulare e quando non.Riflettere allora sugli smartphone e sulle pratiche che sono legate al digitale (saper cercare informazioni, saper condividere pensieri strutturati in forma scritta o audiovisiva, sapersi relazionare agli altri, ecc.) non significa ritenere che siano questi gli elementi centrali dell'innovazione scolastica ma significa riconoscere che la forma dell'esperienza e dei saperi assume una natura diversa all'interno di universi mediali differenti. E riconoscere che oggi questi strumenti e quegli universi mediali sono parte delle vite quotidiane delle nostre figlie e dei nostri figli.
L'uso dei dispositivi in classe rappresenta quindi una sfida e un'opportunità culturale. Anche in Italia, come è avvenuto in altri Paesi, dobbiamo prendere atto della diffusione dei dispositivi mobili, di una connessione internet cresciuta (anche se differente e disomogenea ma comunque consistente) e dell'esistenza di progetti in classe che già da tempo si ispirano alle pratiche del Byod (Bring your own device, porta il tuo dispositivo) che portano a un uso consapevole dello smartphone attraverso le dinamiche dell'apprendimento.

D'altra parte, il fatto che le nostre figlie e i nostri figli frequentino per biografia la cultura digitale non significa che non abbiano bisogno di essere accompagnati alla produzione di senso all'interno di ambienti connessi e comunitari, attraverso la produzione, distribuzione e consumo di contenuti che diventano parte della loro riflessività quotidiana. Si tratta quindi non solo di sviluppare abilità tecniche ma di sostenere l'acquisizione di capacità critiche e creative. Il tutto nel pieno rispetto dell'autonomia didattica e della scelta dei docenti: sono loro ad introdurli e guidarne l'uso (e il non uso) in classe.
Quando spiego Dante lo smarphone può stare in una box vicino alla cattedra; ma quando affrontiamo l'iconografia dantesca possiamo lavorare assieme sulla ricerca di immagini online e nelle centinaia di progetti su Dante che la rete mette a disposizione e costruire una bacheca su Pinterest. Vivere il digitale, insomma, non è una questione naturale ma richiede educazione e cultura. La retorica del «togliere il cellulare a scuola» magari porta a non essere dipendenti dalle tecnologie in quel contesto per restarne schiavi altrove. Per questo una riflessione sul tempo con e il tempo senza il cellulare in classe è un modo per portare ragazze e ragazzi ad usare e non ad essere usati dalle tecnologie ovunque.
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