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«L’innovazione deve partire dal basso»: il caso Metalwork

«Bisogna condividere la rivoluzione». Cambiare è anche dire dei no, la valutazione sui cobot
Nello stabilimento. Un sistema automatizzato e connesso installato in Metalwork - © www.giornaledibrescia.it
Nello stabilimento. Un sistema automatizzato e connesso installato in Metalwork - © www.giornaledibrescia.it
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Esistono tanti modi di intendere la rivoluzione 4.0. C'è la visione tedesca che guarda all'automazione come principale motore di cambiamento, una statunitense prettamente rivolta all'applicazione di tecnologie su larga scala, una giapponese fatta di collaborazione tra grandi e piccoli attori economici e con l'uomo al centro.

E poi c'è quella della Metalwork di Concesio, leader italiana nel settore della pneumatica. «Noi adattiamo alle nostre sigenze strumenti e potenzialità, prendendo quanto ci serve e non innovando per il gusto di farlo - spiega Piero Ferretti, responsabile dell'industrializzazione e ingegnerizzazione di prodotto dell'azienda fondata dal compianto Erminio Bonatti -. Una tecnologia può essere ritenuta utile se aiuta ad abbattere non solo i costi di produzione ma anche, e negli ultimi anni soprattutto, i tempi. Il fattore qualità non lo si considera, perchè standard elevati sono la base minima dalla quale partire per poter competere».

In quel di Concesio lo sanno bene visto la vocazione internazionale (l'export vale circa il 60% del fatturato, 163 milioni nel 2016) e conoscono altrettanto bene l'importanza di avere alle spalle un progetto complessivo di digitalizzazione. «Sono anni che, grazie al fondatore, stiamo percorrendo questa strada - conferma Ferretti -. In fase di produzione il riflesso si è visto nella totale interconnessione tra le macchine, in grado di dialogare fra di loro, di tracciare gli oggetti durante i flussi e di fornire tutti i dati all'operatore, come, quando e nel formato di cui ha bisogno».

Perché una rivoluzione non ha sbocchi se non è a portata di uomo «e se non parte dal basso. Non serve a niente cambiare se chi lavora non condivide, non capisce o non è in grado di gestire le novità». È una visione figlia di un'intensa applicazione dei principi nipponici lean e kaizen, un approccio concreto che poggia le basi su una volontà visionaria. Magazzini automatizzati, strumenti ottici per valutare gli standard di prodotto, interconnessione tra le diverse postazioni di lavorazione.

E il percorso continua. «Stiamo valutando la possibilità di inserire in azienda i cobot, diventati anche economicamente molto accessibili - conferma Ferretti, alla guida di un team di circa venti persone (Metalwork ha circa un migliaio di addetti, oltre 350 nello stabilimento valtrumplino) -. C'è un progetto in corso, per capire quali vantaggi queste macchine potrebbero apportare e come potrebbero interagire con gli operatori».

Ma la digitalizzazione in chiave Metalwork è fatta anche di no e di scelte. «Per quanto ci riguarda non è possibile applicare la manifattura additiva su larga scala - spiega il responsabile dell'industrializzazione -. Utilizziamo la stampa 3D unicamente in fase di progettazione. Creiamo grandi lotti di prodotti, personalizzabili fin nei minimi particolari dai clienti, e l'additive manufacturing va bene solo per la realizzazione di piccole quantità».

Un niet che si estende anche ai big data. «C'è stata in passato una riflessione sul tema, sulla gestione dell'enorme mole di informazioni che ci arriva dalle macchine - racconta -. Siamo però già in grado di agire just in time sul nostro processo produttivo e la predittività la lasciamo a chi crea le macchine che noi usiamo».

È questa la peculiarità del gioiello nato dal sogno di Erminio Bonatti, un'azienda che ha scoperto di potersi non porre limiti solo dopo aver scoperto di averli. Il sommo poeta Alighieri definiva "magnanimità" questa caratteristica propria delle menti illuminate e più di settecento anni dopo ciò vale anche per la Metal Work.

 

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