Economia

Oscar dei Bilanci, la lectio magistralis del prof. Daniele Franco

Il già direttore generale della Banca d’Italia e ministro dell’Economia del governo Draghi ha parlato di Cultura nella sua accezione economica
L'economista ed ex ministro Franco sul palco del Grande - Foto NewReporter/Favretto/Nicoli © www.giornaledibrescia.it
L'economista ed ex ministro Franco sul palco del Grande - Foto NewReporter/Favretto/Nicoli © www.giornaledibrescia.it
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Qui di seguito il testo integrale della lectio magistralis che il prof. Daniele Franco, già direttore generale della Banca d’Italia e ministro dell’Economia del governo Draghi, ha tenuto sul palco del Teatro Grande, in occasione della nona edizione dell'Oscar dei Bilanci.

È un grande onore essere qui al Teatro Grande di Brescia per questa edizione dell’Oscar dei Bilanci che coincide con la chiusura dell’Anno della cultura. Ringrazio l’Editoriale Bresciana e l’Università degli Studi di Brescia.

La relazione che abbiamo appena ascoltato (quella del prof. Claudio Teodori di UniBs, ndr) ha esaminato lo stato dell’industria bresciana e le sue prospettive. È una relazione approfondita, interessante, molto importante anche per capire come evolve l’economia italiana nel suo complesso. A prima vista manifattura e cultura possono sembrare mondi diversi. In realtà non è così, la nostra storia economica lo dimostra. Per esaminare il collegamento tra industria e cultura conviene partire da quanto ha detto lo scorso 20 gennaio il Presidente della Repubblica, nell’aprire l’Anno della cultura. Il Presidente Mattarella ci ha ricordato che «La cultura è una grande ricchezza». Che «nasce dalla vita, dalla comunità, dalla natura che ci ospita, e poi ritorna alle persone, alle generazioni successive, come forza vitale, come civiltà, come genio e valore. La cultura non è un ambito separato dell’attività umana, quasi un suo sovrappiù. È il sapere conquistato dall’esperienza. È il pensiero che si costruisce nello studio, nel confronto, nella ricerca, nel lavoro». Il Presidente Mattarella ci ricorda dunque che cultura ed economia sono strettamente connesse.

Il legame

Credo che il legame tra cultura ed economia sia particolarmente stretto per un paese che come l’Italia non ha risorse naturali abbondanti. Che trae il suo benessere dal saper fare, dal saper creare. Pierluigi Ciocca e Gianni Toniolo, nell’introdurre un ampio insieme di studi sulla storia economica dell’Italia, nel 1998, scrivevano: «Paese praticamente privo di materie prime, allungato sul mare, l’Italia ha affinato nei secoli l’abilità di sfruttare il proprio vantaggio comparato nei traffici marittimi, nell’intermediazione commerciale e finanziaria. A questo vantaggio naturale l’ingegnosità degli abitanti ha presto aggiunto quello della trasformazione manifatturiera. Su queste basi, l’Italia ha fondato, per due volte, una egemonia su scala europea e mediterranea» (Storia economica d’Italia – 1. Interpretazioni, Laterza, 1998, p. vi).

La prima fase, quella della Roma imperiale, è ovviamente molto lontana nel tempo. Un po’ più vicina è la seconda fase, tra il XIII e il XVI secolo, in cui l’Italia è stata una potenza culturale ed economica, senza essere più una potenza militare. In quei secoli l’Italia del Centro-Nord è stata l’area più prospera d’Europa e il Rinascimento italiano era al centro della cultura europea. (Toniolo, 2013, p. 8 – La crescita economica italiana, 1861-2011 in L’Italia e l’economia mondiale dall’Unità a oggi, Collana storica della Banca d’Italia, Marsilio).

Prosperità

Brescia era parte integrante di questa prosperità, in particolare con la lavorazione dei metalli e dei tessuti, con le stamperie, con l’agricoltura. Angus Maddison stima che il Pil pro capite italiano nel 1500 fosse pari a 1100 dollari (a parità di potere d’acquisto del 1990); Francia, Germania e Regno Unito stavano attorno ai 700 dollari. L’Italia superava quasi del 60 per cento gli altri tre paesi. La ricchezza relativa dell’Italia si fondava sulla capacità degli artigiani, dei mercanti, dei banchieri, sul funzionamento dei mercati, sul diritto commerciale, sulle tecnologie, nella manifattura e nell’agricoltura (Ciocca e Toniolo, 1998, p. vii).

Francesco Guicciardini, nel proemio della Storia d'Italia, completata nel 1540, scriveva - riferendosi alla fine del 15° secolo - che l’Italia «non aveva giammai sentito Italia tanta prosperità, né provato stato tanto desiderabile quanto era quello nel quale sicuramente si riposava l'anno della salute cristiana mille quattrocento novanta, e gli anni che a quello e prima e poi furono congiunti. Perché, ridotta tutta in somma pace e tranquillità, coltivata non meno ne' luoghi più montuosi e più sterili che nelle pianure e regioni sue più fertili, né sottoposta a altro imperio che de' suoi medesimi, non solo era abbondantissima d'abitatori, di mercatanzie e di ricchezze; ma illustrata sommamente dalla magnificenza di molti prìncipi, dallo splendore di molte nobilissime e bellissime città, dalla sedia e maestà della religione, fioriva d'uomini prestantissimi nella amministrazione delle cose pubbliche, e di ingegni molto nobili in tutte le dottrine e in qualunque arte preclara e industriosa; né priva secondo l'uso di quella età di gloria militare e ornatissima di tante doti, meritamente appresso a tutte le nazioni nome e fama chiarissima riteneva». Guicciardini associava quindi la prosperità dell’Italia alle città e a una cultura diffusa, dove le arti e gli studi erano integrati con la manifattura e il commercio.

Capitali della Cultura

La Sala Grande del Teatro Grande di Brescia - Foto New Reporter Umberto Favretto
La Sala Grande del Teatro Grande di Brescia - Foto New Reporter Umberto Favretto

Questo ci conduce al tema dell’anno della cultura: Brescia e Bergamo sono due città molto belle, ricche di storia, monumenti, istituzioni culturali ma sono anche due grandi poli produttivi. Ci sono forti legami tra queste due caratteristiche. Quello ovvio, che dalla ricchezza fa discendere la commissione e la realizzazione di palazzi ed opere d’arte. Ma vi è anche quello inverso: bellezza e cultura aiutano ad elevare la qualità (il valore aggiunto) delle produzioni manifatturiere.

Nella classifica del valore aggiunto delle province italiane, Brescia e Bergamo sono rispettivamente al quinto e all’ottavo posto, subito dopo le grandi metropoli. (Centro Studi delle Camere di commercio Guglielmo Tagliacarne, 2021, Il valore aggiunto delle province italiane nel 2020) Brescia e Bergamo sono poi la quarta e la quinta provincia italiana per valore delle esportazioni, dopo Milano, Torino e Vicenza. Secondo Carlo Cipolla, uno dei più grandi storici dell’economia, la ricchezza dell’Italia dipende sempre essenzialmente dal saper «produrre cose nuove che piacciono al mondo» (Storia facile dell’economia italiana dal Medioevo a oggi, il Mulino, 1995, Mondadori, p XV).

Esportazione

Cipolla scriveva che «Se l’Italia vuole prosperare nelle condizioni naturali in cui si trova deve esportare». (1995, p. xiv) Per questo Bergamo e Brescia - con la loro capacità di esportare - sono un pilastro essenziale dell’economia italiana. Cipolla scriveva anche che questo bisogno di esportare fa sì che «Noi siamo un popolo che non può permettersi di fermarsi, di accontentarsi di facili successi» (1995. P. xv).

L'esportazione è centrale
L'esportazione è centrale

Questo «fermarsi» è invece accaduto nel ‘600. L’Italia ha perso competitività e capacità di innovazione ed è decaduta rispetto agli altri paesi. Secondo alcuni storici il reddito è anche sceso rispetto ai secoli precedenti (Malanima, 2002, p. 346 - L’economia italiana - Dalla crescita medievale alla crescita contemporanea, il Mulino). Nel corso del ‘600 le esportazioni diminuirono notevolmente; le importazioni di manufatti stranieri aumentarono. La produzione di tessuti crollò. (Carlo Cipolla, 1974 – Storia economica dell’Europa pre-industriale, il Mulino). Il problema principale risiedeva nei prezzi poco competitivi. A loro volta determinati dall’alto costo del lavoro, dalla pressione fiscale, dall’assetto corporativo che rallentava le innovazioni.

Secondo Cipolla (1974), «Le strutture sociali del Paese si erano venute sclerotizzando e irrigidendo e lo stesso poteva dirsi della mentalità prevalente». (p. 303) Sottostante c’era la resistenza culturale e istituzionale al cambiamento. «... l’appartenenza a famiglia dedita ad attività mercantili o artigianali divenne elemento di discriminazione e preclusione a posizioni professionali e sociali» (p. 304). Questa analisi ha un interesse storico, ma è anche un monito per il futuro. Ci ricorda che il nostro benessere non è scontato, ci dice che possiamo decadere quando abbiamo una difficoltà culturale ad accettare il cambiamento e a sforzarci di restare competitivi nel mondo, quando vengono meno concorrenza e meritocrazia.

Dopo l'Unità

Al momento dell’unificazione politica, nel marzo del 1861, la penisola italiana era un’area relativamente povera e arretrata. Il tenore di vita medio della maggior parte dei suoi abitanti era poco lontano dalla mera sussistenza. Il reddito pro capite era circa la metà di quello della Gran Bretagna e circa due terzi di quello della Francia (Toniolo, 2012, p. 9). «Al momento dell’unificazione politica, nel marzo del 1861, la penisola italiana era un’area povera e arretrata. Povera, perché il tenore di vita medio della maggior parte dei suoi abitanti era poco lontano dalla mera sussistenza; arretrata, perché il reddito per abitante era considerevolmente inferiore a quello medio dell'Europa occidentale …» (Bastasin e Toniolo, p. 3).

Secondo il Censimento del 1861 (vol. 2, p. 392), nella Provincia di Brescia, su 486.000 abitanti, 292.000 erano analfabeti. Degli altri 194.000, 38.000 sapevano leggere ma non scrivere. Solo un terzo della popolazione sapeva leggere e scrivere. Nel resto d’Italia la situazione era in media peggiore. Dopo l’Unificazione l’Italia si è trasformata, con fasi di accelerazione e di rallentamento della crescita. Il progresso è stato enorme: tra il 1861 e il 2011 il Pil pro capite è aumentato di circa dodici volte; l’aspettativa di vita alla nascita è passata da 30 a 82 anni; la mortalità infantile è scesa da 289 su mille a 4,5 su mille; l’analfabetismo è pressoché scomparso (il tasso di alfabetizzazione è passato dal 22 al 98%). La distribuzione dei redditi è diventata molto meno squilibrata; la povertà assoluta si è enormemente ridotta. (Toniolo, 2013, p. 6).

Vitalità imprenditoriale

Il benessere deriva dall’attività di impresa, accompagnata da politiche sociali inclusive
Il benessere deriva dall’attività di impresa, accompagnata da politiche sociali inclusive

Nel secondo dopoguerra, in particolare, abbiamo recuperato molte posizioni rispetto agli altri paesi sviluppati: nel 1995 il nostro reddito pro capite era pari al 70% di quello americano, a circa il 90% di quello francese e tedesco, ed era di poco inferiore a quello del Regno Unito. Era il momento del cosiddetto sorpasso del Regno Unito (Bastasin e Toniolo, 2020, p. 4 - La strada smarrita, Breve storia dell’economia italiana, Laterza). Sottostante questo processo c’era la capacità di esportare, soprattutto manufatti. Questo sviluppo dell’Italia non era scontato.

È frutto della vitalità imprenditoriale, dell’impegno sul lavoro di milioni di italiani, di un assetto politico e sociale che ha gestito migrazioni e tensioni e ha cercato di essere inclusivo. È derivato anche da buone scelte di politica economica: l’apertura dei mercati, l’integrazione europea, un intervento pubblico spesso illuminato. È frutto di una visione culturale che vedeva l’Italia integrata nell’Europa e nell’Occidente. Per motivi di affinità di valori, di sicurezza e per considerazioni economiche. In questa visione il benessere deriva essenzialmente dall’attività di impresa, accompagnata da politiche sociali inclusive. Ricordiamo, per esempio, la creazione del Servizio Sanitario Nazionale e il prolungamento della scuola dell’obbligo e il potenziamento degli studi successivi.

L'economia italiana

Negli ultimi decenni la nostra economia è però diventata meno dinamica. Nel 1995 il Pil pro capite italiano era del 9 per cento superiore a quello medio dell’area dell’euro. Nel 2022 era del 7 per cento inferiore. In poco più di un quarto di secolo abbiamo perso 16 punti rispetto al complesso dell’area dell’euro. Abbiamo un tasso di occupazione (sulla popolazione 20-64 anni) del 66%, contro il 75% della media Ue e l’81% della Germania.  Abbiamo a lungo investito meno degli altri paesi: nel 2019 gli investimenti fissi lordi erano pari al 18% del PIL contro il 22% dell’area euro. Siamo il paese della UE in cui la produttività è salita meno dal 1999 al 2019.

Possiamo accontentarci di questa crescita stentata? Si potrebbe argomentare che siamo già abbastanza ricchi e possiamo comunque stare bene. Carlo Cipolla ci direbbe invece, giustamente, che non possiamo stare fermi. Perché il nostro benessere deriva dalla nostra capacità di esportare. Ma vi sono anche altri motivi per non stare fermi.

Demografia e transizione ecologica

In primo luogo, dobbiamo gestire un grande debito pubblico; serve prudenza fiscale, ma la crescita economica è certamente il modo più indolore di ridurre il peso del debito. Come è accaduto nel periodo giolittiano all’inizio del ‘900. Dobbiamo poi affrontare una difficile situazione demografica, che richiede cambiamenti nella vita lavorativa e nei servizi sociali. È più facile gestire l’invecchiamento della popolazione se si hanno tassi di occupazione elevati e redditi che crescono.

Dobbiamo anche affrontare una transizione climatica che impone cambiamenti importanti nelle nostre modalità di consumare, produrre, viaggiare. Si discute sulle scelte specifiche, dai tipi di motori alle fonti di energia, ma l’obiettivo di azzerare le emissioni di gas serra è incontrovertibile. Tra gli scienziati il consenso sui rischi che corriamo è pressoché totale. La transizione è costosa, richiede investimenti e riconversioni.

Da ultimo e più importante, dobbiamo offrire alle generazioni più giovani la possibilità di lavorare e realizzarsi in Italia: l’emigrazione dei giovani ha assunto dimensioni preoccupanti. Un paese poco dinamico non offre retribuzioni e prospettive adeguate.

Circa l’emigrazione dei nostri giovani, vorrei citare alcuni studi condotti recentemente dalla Fondazione Nord Est. Da essi emerge, innanzi tutto, che le statistiche di Eurostat e degli altri paesi europei sugli italiani all’estero indicano numeri molto superiori a quelli risultanti alla nostra anagrafe. Emerge poi la forte componente di laureati e di giovani provenienti dalle regioni italiane più ricche. Tra le motivazioni principali vi sono le retribuzioni, ma anche la possibilità di realizzarsi e la qualità della vita. Il problema non sta nei flussi lordi in uscita, sta nella asimmetria dei numeri tra i giovani italiani che migrano verso paesi europei e i giovani stranieri che entrano in Italia dagli stessi paesi. Subiamo così una perdita enorme in capitale umano nelle fasce d’età più dinamiche.

Innovazione e capitale umano

Fondamentale investire sulla formazione
Fondamentale investire sulla formazione

Per tutti questi motivi dobbiamo - come Paese - riacquisire dinamismo, capacità di innovare, di adattarci rapidamente al mondo che cambia. Da anni ci interroghiamo su come riprendere a crescere. La storia degli ultimi anni ci conferma che non ci sono bacchette magiche (come singole riforme o bonus di qualche tipo) che possano far crescere durevolmente un paese di 60 milioni di abitanti. Crescere di più richiede maggiori investimenti nelle infrastrutture, negli impianti produttivi ma anche e soprattutto nel capitale umano, nella ricerca e nell’innovazione; richiede l’aumento dei tassi di occupazione tra le donne, i giovani, nelle regioni meridionali; richiede una crescita più rapida della produttività, che a sua volta richiede riforme, semplificazioni, un sistema educativo più efficace. Serve insomma un’azione ampia e prolungata. Ma ovviamente il Pnrr da solo non basta. Tutta la politica economica deve essere orientata agli investimenti, all’occupazione, all’innovazione. È necessaria soprattutto una diffusa percezione che questa partita è cruciale per il futuro del nostro Paese, per il benessere delle nostre stesse famiglie.

La ripresa della nostra economia nella fase postpandemica suggerisce che un cambiamento è in atto. La nostra manifattura e molti altri settori hanno notevoli elementi di dinamismo. Il Pil nel 2023 dovrebbe superare quello del 2019 (l’anno pre-pandemia) del 3%. È un aumento superiore a quelli di Francia, Germana, Spagna e Regno Unito. In particolare superiamo di due punti la Germania e di un punto la Francia (European Commission, Autumn Forecasts, November 2023). Tra il 2019 e il 2023 gli investimenti in macchinari e impianti sono aumentati in Italia del 17%, contro il 5% della Francia e la leggera flessione rispetto al 2019 della Germania. Tra il 2019 e il 2023 le esportazioni sono aumentate in Italia di quasi il 9%, contro il 2% della Germania e una leggera flessione rispetto al 2019 in Francia. Osserviamo anche un continuo aumento dell’occupazione, dall’inizio del 2021 sono stati creati un milione e mezzo di posti di lavoro. Il rapporto sull’economia di Brescia presentato prima conferma questo dinamismo.

Turismo e cultura

Dobbiamo fare di tutto per consolidare questo processo di ripresa. La cultura deve avere un ruolo centrale in questo sforzo. La prima dimensione è ovviamente quella degli effetti diretti delle attività economiche connesse con il mondo culturale, in particolare quelle turistiche. Il turismo, che ha recuperato i livelli del 2019, è fondamentale per creare occupazione diffusa nel paese. Si viene in Italia anche e soprattutto per il nostro patrimonio culturale. Vi sono margini di miglioramento. Soprattutto nelle regioni meridionali: il Sud e le Isole assorbono solo un sesto della spesa dei turisti stranieri (Indagine sul turismo internazionale, BdI, giugno 2023).

Vi sono ampi margini di miglioramento anche nel modo in cui come paese organizziamo i vari comparti del settore culturale, dai musei, ai teatri, alla musica, alla tutela del patrimonio architettonico e naturale. Vi è poi una seconda dimensione, forse meno evidente ma ancora più importante: la cultura deve aiutarci in tutte le attività economiche ad accrescere il valore aggiunto, a fornire beni e servizi nelle fasce alte dei mercati: dai vari comparti della manifattura ai servizi per le imprese, ai servizi finanziari, all’istruzione, ai servizi sanitari.

Formazione

In una competizione globale largamente basata sulla conoscenza il nostro paese può e deve continuare ad avere un ruolo importante, con i suoi tecnici, ingegneri, ricercatori, artigiani, artisti. Molte imprese, molte istituzioni pubbliche e private già lo fanno: è evidente dalla performance delle nostre esportazioni. Ma dobbiamo farlo su una scala più ampia. Poche nostre università sono nella prima fascia mondiale. Molti buoni ricercatori emigrano. Per spostarci su fasce più elevate del valore aggiunto mondiale dobbiamo investire di più sulla scuola, l’università, la formazione nell’arco della vita lavorativa. 

Dobbiamo cercare di premiare maggiormente il merito, in tutti i contesti. Dal settore pubblico alle imprese. 

Nel chiudere la sua introduzione al volume “L’Italia e l’economia mondiale”, che racchiude i lavori promossi dalla Banca d’Italia per i 150 anni dall’Unità del Paese, Gianni Toniolo scriveva: “Più che in altri paesi il futuro dell’Italia dipende in maniera cruciale dalla qualità e dalla diffusione dell’istruzione.” (p. 51) Nei dibattiti pubblici il tema dell’istruzione ha invece spesso un’attenzione modesta ed episodica.

Dobbiamo cercare di premiare maggiormente il merito, in tutti i contesti. Dal settore pubblico alle imprese. Dobbiamo - come diceva il prof. Lupo - abbattere le barriere tra i vari comparti: tra università e industria, tra istituzioni culturali e imprese. Dobbiamo - ripeto - avere tutti la percezione che l’uscita dalla stagnazione è il problema principale della politica economica nazionale.

Le imprese hanno un ruolo cruciale. Lo Stato può e deve creare condizioni favorevoli, ma sono le imprese che creano nuovi prodotti e che li collocano nel mondo. Le imprese devono anche contribuire a creare al loro interno condizioni che riducano l’emigrazione netta di giovani. Nei prossimi anni gli indicatori macroeconomici, soprattutto il Pil, ci diranno se saremo riusciti a consolidare e rafforzare i segnali di ripresa di cui ho detto prima.

Ma il test più importante sarà quello che riguarda i flussi di giovani tra l’Italia e gli altri paesi. Solo quando i flussi torneranno in equilibrio potremo dire che il Paese ha ritrovato la sua strada.

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