Cultura

Il nuovo libro di Egidio Bonomi ripercorre la storia di Lumezzane

Il giornalista e scrittore nel volume intitolato «La Lumezzane che non c’è più» raccoglie aneddoti, personaggi e immagini del paese
Il nuovo libro «La Lumezzane che non c'è più» di Egidio Bonomi - © www.giornaledibrescia.it
Il nuovo libro «La Lumezzane che non c'è più» di Egidio Bonomi - © www.giornaledibrescia.it
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«Com’eravamo? Com’eravamo fino agli anni Cinquanta, quando da undicimila abitanti si è passati a quasi diciottomila nel giro di dieci anni?»: se lo chiede Egidio Bonomi, giornalista e scrittore, che di Lumezzane è intriso fino all’ultimo anello del Dna. E la risposta si snoda nelle 250 pagine del volume «La Lumezzane che non c’è più», edito dalla Compagnia della stampa e distribuito gratuitamente dal Comune ai cittadini alla LumeTeca. «Un mondo perduto e quasi introvabile, d’una valle divenuta prospera col sangue, i sudori, la tenacia d’una comunità capace di sopravanzare persino la scomodità geografica del suo territorio».

Le origini

«La Lumezzane prima di quella data ha arrancato poveramente per secoli – scrive Bonomi –, prigioniera avvelenata della Serenissima e dei feudatari Avogadro, fino alla caduta di Venezia per opera di Napoleone». Ma niente concessioni alla storia aulica, tutto il libro è costruito su «una memoria ampia, curiosa, sui nostri padri, le loro famiglie, le usanze, i costumi». E il lavoro, che a Lumezzane è sacro al punto da sfiorare la devozione, se non la fede.

Non è un saggio, anche se con precisione narra di protagonisti, fatti, aneddoti e dati, accanto a riflessioni e analisi. Non segue cadenze cronologiche, ma accosta trentatre capitoli (come i canti della Commedia dantesca) che si possono leggere qua e là, assecondando le curiosità personali. Le immagini diventano utile bussola nel cammino, fin dall’istantanea di copertina, che sovrappone un contadino piegato in due dalla fatica, come la giumenta che trascina il carretto, alla pubblicità d’un rombante trattore.

Il contadino chino, come la giumenta che traina il carretto, è l'immagine di copertina del libro
Il contadino chino, come la giumenta che traina il carretto, è l'immagine di copertina del libro

Lumezzane era povera e isolata, come mostra la cartolina del 1911 di Sant’Apollonio. Famiglie dai cognomi tutti uguali e distinte dai soprannomi. Borgate quasi rivali, sette campanili per altrettanti paesi. Riti e religione ad unificare tutti nel nome d’un Dio invocato e temuto. Calzoni di fustagno e gonne alle caviglie. Un abito solo, quello della festa, che spesso era stato quello del matrimonio.

Per costruire le scuole elementari di S. Apollonio, nel 1936, Lumezzane deve chiedere un prestito, un milione e mezzo di lire, ottenuto dal Comune di Temù. Lumezzane era ricca d’acqua. Sorgenti e torrenti alimentavano le fontane con i lavatoi (luoghi di relazioni intense, altro che i social del web), ma anche i campi e le officine.

Donne al lavatoio
Donne al lavatoio

Il lavoro era duro come il ferro. Fuoco e fumo, polvere e limature, gran fatica di gesti tanto precisi quanto ripetitivi. Ore e ore a lucidar posate, al punto da essere identificati col proprio compito: gli "hpahulì", gli spazzolini. Giornate intere distesi a terra a molare lame. Dal ferro all’ottone, all’inox: l’ascesa lumezzanese al mercato mondiale.

La ricostruzione

Capitoli carichi di storie quelli del Ventennio fascista e della Resistenza. La Todt nazista che reclutava manodopera. La strada verso la ricostruzione con le volatili AMlire stampate dagli Alleati. Le atrocità della guerra civile dopo l’8 settembre del ’43. La voglia di ripartire. C’erano le osterie dove si facevano anche affari, non sempre limpidi, c’erano i ristoranti e gli alberghi, c’erano persino gli orsi in gabbia. Si giocava con il «ciàncol» per strada, alla pallamano in piazza, e al «fòbal», come veniva chiamato il calcio con una torsione valgobbina dell’inglese. Una foto d’epoca mostra la partenza del Giro ciclistico di Lumezzane.

Gli «hpahuli» che lustrano le posate
Gli «hpahuli» che lustrano le posate

C’era una gran voglia di fare festa: le orchestrine, i canti, i balli. Le immagini mostrano una presenza dominante maschile, come prevedeva lo spirito del tempo, anche se le donne erano l’asse portante delle case. Il teatro e la musica rivelano una passione per l’arte che non si darebbe scontata per Lumezzane. Senza dimenticare che lassù trovò accoglienza e aiuto al pittore Antonio Ligabue.

Un caso di studio

La storia è assai simile a quella di tante borgate di provincia. Ma Lumezzane ha una serie di peculiarità sorprendenti, che Egidio Bonomi ha già scandagliato nei volumi dedicati ai costumi, alle famiglie, al dialetto inconfondibile nel suo vortice di aspirate. Quel che appare ancor più originale è come in questo luogo si sia creata la piattaforma d’un successo imprenditoriale di fame internazionale. Un «caso» studiato all’università.

Il libro ha una dedica precisa: «Alle generazioni giovani che godono del benessere raggiunto nella seconda metà del Novecento, ma frutto del lavoro immenso, imbastito nei primi cinquant’anni di quel secolo». Scritto con «un intento affettuoso» – spiega Bonomi – e «con una microscopica ombra di presunzione che, se non avessi dato conto di questo mezzo secolo di storia valligiana, la memoria di essa sarebbe andata inesorabilmente perduta».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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