Cinema

I film che ci hanno fatto ballare e piangere allo stesso tempo

Cristiano Bolla
Da «Saranno famosi» fino al traumatico «A Time for Dancing»: a volte la danza al cinema è stata molto più di una semplice coreografia
Dal film «Save the Last Dance» - Paramount
Dal film «Save the Last Dance» - Paramount
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La danza al cinema non è mai stata soltanto un’esibizione di talento. Fin dagli anni Ottanta ha rappresentato un linguaggio emozionale, una forma di espressione capace di portare alla luce paure, ambizioni e desideri che i personaggi non riuscivano a dire a parole. Per molti spettatori, adolescenti o giovani adulti, questi film sono diventati un rito di passaggio: opere che, dietro la leggerezza di un ritmo o la bellezza di una coreografia, nascondevano racconti di crescita, ferite intime e momenti di scoperta che hanno segnato profondamente l’immaginario collettivo, a volte veri e propri traumi. Non solo film sul ballo, ma storie che hanno accompagnato generazioni intere nell’affrontare la complessità dell’emotività giovanile.

Gli anni Ottanta

Negli anni Ottanta, questo percorso ha preso forma con «Saranno famosi», ambientato nella prestigiosa scuola d’arte performativa di New York. Il film diretto da Alan Parker e vincitore di due premi Oscar (Miglior colonna sonora e canzone, indimenticabile) seguiva un gruppo di aspiranti artisti lungo il difficile cammino verso la realizzazione personale, rendendo evidente quanto talento e sacrificio vadano di pari passo. Ogni personaggio portava sulle spalle un peso diverso: aspettative familiari, insicurezze profonde, pressioni economiche o il timore costante di non essere abbastanza. La danza in questo caso era l’arena in cui questi conflitti potevano esplodere, un luogo capace di restituire gioia e sofferenza in egual misura.

Tre anni più tardi, l’intramontabile «Flashdance» ha poi proseguito su questa linea, raccontando la vita di Alex (Jennifer Beals), costretta a dividersi tra il lavoro in fabbrica e il sogno di esibirsi sul palcoscenico. La sua storia è segnata dalla paura del fallimento e dalla solitudine, mostrando come la ricerca di un’opportunità possa trasformarsi in una sfida emotiva estenuante. In «Footloose» del 1984 invece, la danza è diventata atto proibito: in una cittadina segnata da una tragedia, ballare veniva percepito come una minaccia. Il protagonista, Kevin Bacon, si ritrovava così a confrontarsi con adulti che, per paura di affrontare il dolore, impongono ai giovani un divieto carico di tensione.

Impossibile non citare anche «Dirty Dancing», tra i più famosi titoli del genere in grado di unire invece la formazione sentimentale a una realtà più dura: l’incontro fra Baby (Jennifer Grey) e Johnny (Patrick Swayze) portava alla luce temi sociali come la disparità di classe e la difficile vicenda dell’aborto clandestino di una ballerina, rendendo la danza non solo un percorso di emancipazione, ma anche di consapevolezza. Anche «Shag» del 1989, seppur con toni più leggeri, ha esplorato il territorio della vulnerabilità adolescenziale attraverso un gruppo di amiche che affrontano le proprie insicurezze, la pressione delle aspettative e la paura di non trovare il proprio posto nel mondo.

Gli anni Novanta

Gli anni Novanta hanno poi ampliato ulteriormente la portata emotiva della danza al cinema, spesso intrecciandola a contesti sociali complessi. In «Lambada» (1990), il ballo è diventato un ponte tra quartieri segnati da forti differenze economiche: un giovane insegnante provava a unire due mondi opposti, mentre gli adolescenti affrontavano umiliazioni, pregiudizi e il peso di un sistema che li considera troppo diversi per potersi incontrare. Curiosamente, nello stesso anno, la lambada ha ispirato anche un altro film intitolato «La danza proibita», che accentuava il carattere melodrammatico del genere, seguendo una giovane brasiliana che usava la danza così in voga in quegli anni come arma di resistenza culturale contro chi minaccia la sua comunità. Il racconto, per quanto romanzato, metteva in scena un conflitto dove identità e tradizione vengono minacciate da logiche di sfruttamento, intensificando l’impatto emotivo delle sue coreografie.

Il titolo più potente del decennio resta però «Swing Kids – Giovani ribelli», ambientato nella Germania nazista. Qui un gruppo di ragazzi trovava nello swing l’unico spazio di libertà, un luogo dove poter essere sé stessi nonostante il peso della propaganda, della violenza e del controllo ideologico. Il film – per la verità uno dei più odiati dai critici di alto rango per il modo in cui ignorava l’antisemitismo e banalizzava la figura di Hitler – raccontava l’inevitabile perdita dell’innocenza, mostrando come la danza potesse diventare un gesto di ribellione, ma anche una scelta che espone a rischi profondi, sia fisici sia emotivi.

Gli anni Duemila

Con l’inizio dei Duemila, il rapporto tra danza e fragilità personale è entrato in una dimensione ancora più intima, vicina all’esperienza adolescenziale moderna. Ricordate «Save the Last Dance»? Il film del 2001, diretto da Thomas Carter (lo stesso di «Swing Kids») seguiva la storia di Sara (Julia Stiles), una ragazza chiamata ad affrontare affrontare il trauma della morte improvvisa della madre proprio mentre stava inseguendo il sogno di diventare ballerina. Il trasferimento in un nuovo quartiere, la difficoltà di adattarsi e la necessità di superare il senso di colpa rendevano la danza uno strumento di ricostruzione personale, una via per ritrovare un equilibrio interiore. Il film inoltre metteva in scena anche lo scontro tra culture diverse e il peso dei pregiudizi, mostrando come l’espressione artistica possa diventare un terreno di incontro, ma anche di conflitto.

La dimensione emotiva ha però raggiunto il culmine con «A Time for Dancing», storia di due migliori amiche unite dalla passione per la danza: quando una delle due si ammalava gravemente, la danza assumeva così un valore completamente diverso; non più un sogno da realizzare, ma un modo per affermare la propria identità contro la malattia, un gesto che racchiudeva insieme speranza, dolore e coraggio. Un film struggente, per molti versi traumatico sulla della fragilità del corpo e della forza dell’amicizia, che ha mostrato come il ballo possa diventare un’ancora di salvezza anche nei momenti più bui.

Dagli anni Ottanta ai primi Duemila – ma si potrebbero citare anche titoli più recenti come «Black Swan» o le saghe pop «Step Up» e «Honey» – questi film hanno dimostrato a vario titolo come la danza non sia mai stata soltanto un elemento decorativo, ma un mezzo narrativo potentissimo attraverso cui raccontare il passaggio all’età adulta. La paura di fallire, il peso delle regole, la forza dei legami, il dolore della perdita... È forse per questo che continuano a colpire ancora oggi, perché nei loro passi, nelle loro cadute e nelle loro rinascite riconosciamo una parte di noi e del nostro percorso di crescita.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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