Cinema

La pandemia ha cambiato il modo di raccontare il virus al cinema

Cristiano Bolla
Esce nelle sale «28 anni dopo», primo capitolo di una trilogia che raccoglie l’eredità di «28 giorni dopo» e la rilancia in un mondo che ha conosciuto la pandemia nella vita quotidiana
Danny Boyle, regista di «28 anni dopo» - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
Danny Boyle, regista di «28 anni dopo» - Foto Ansa © www.giornaledibrescia.it
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Nel 2002 è uscito nelle sale un film in grado di riscrivere le regole del genere zombie, fino a quel momento codificato dalle opere di George Romero (regista di «La notte dei morti viventi») e da chi è arrivato dopo di lui e ha provato ad imitarlo. «28 giorni dopo» è andato in una direzione decisamente diversa: il regista Danny Boyle (poi premio Oscar per «The Millionaire») e Alex Garland (anche lui passato alla regia di film come «Ex Machina» e il più recente «Civil War») hanno portato su schermo un’Inghilterra spettrale, divorata da un virus che trasformava le persone in creature rabbiose, rapide, incontrollabili.

Il virus come detonatore sociale

Più che morti viventi, erano vivi privati di ogni razionalità, incarnazioni di una furia cieca e animalesca. L’uscita di quel film, seguito dal sequel «28 settimane dopo» del 2008, ha segnato l’inizio di una nuova stagione per il cinema dell’orrore, che guardava al virus non solo come minaccia biologica, ma come detonatore sociale. Tra i figli di «28 giorni dopo» si possono annoverare le creature di «The Walking Dead», il fenomeno «The Last of Us» e in generale qualsiasi «zombie che corre».

«28 anni dopo»

Oggi, mercoledì 18 giugno 2025, esce nelle sale «28 anni dopo», primo capitolo di una nuova trilogia che intende raccogliere quell’eredità e rilanciarla in un mondo che ha conosciuto la pandemia non sullo schermo, ma nella vita quotidiana. Non è più solo fantascienza, come ha ammesso Danny Boyle in un’intervista con Gianluca Gazzoli per Sony Pictures Italia: «Quando abbiamo fatto il primo film, era fantascienza. Ora sappiamo tutti cosa vuol dire vivere in quarantena». È questo passaggio – dalla finzione alla memoria collettiva – che rende il nuovo film così potente. L’horror dell’isolamento, della reclusione forzata, della diffidenza reciproca non è più un’ipotesi distopica: è qualcosa che il pubblico di tutto il mondo ha vissuto sulla propria pelle.

La trama

Nel nuovo capitolo, ambientato quasi trent’anni dopo l’epidemia, una piccola comunità sopravvive su un’isola isolata dalla terraferma. Un padre (interpretato da Aaron Taylor-Johnson) e suo figlio (il giovanissimo Alfie Williams) decidono di attraversare quello stretto passaggio per scoprire cosa resta del mondo. Ma non trovano solo infetti: trovano una società trasformata, mutata nella sua struttura e nei suoi codici morali. Come ha sottolineato Alex Garland, «il film esplora come le persone si sono isolate, come reagiscono alla paura e alla disinformazione». Il Rage Virus diventa così metafora di qualcosa di più profondo: il collasso del legame sociale, la perdita di fiducia, l’effetto corrosivo di anni di solitudini accumulate.

Le creature

E anche le creature cambiano. Se in «28 giorni dopo» erano manifestazioni incontrollate della rabbia, ora sono diventate più complesse: si organizzano, cacciano in gruppo, sviluppano una gerarchia. «Il virus evolve, muta – spiega Boyle – come abbiamo visto accadere nella realtà». Il riferimento, neanche troppo velato, è alle varianti del Covid, ma anche a un concetto più profondo: la pandemia come condizione permanente, un mondo che non torna mai davvero alla normalità, ma continua a trasformarsi, a infettarsi in forme nuove.

Di fronte a tutto questo, l’orrore non è solo paura, ma elaborazione. «28 anni dopo» usa il cinema come strumento catartico: permette di rivivere, da spettatori e non da vittime, il trauma collettivo della pandemia. E offre una possibilità: quella di affrontare le nostre paure non per eliminarle, ma per comprenderle. Forse è questo il vero lascito della saga, che prima ha reinventato lo zombie movie e ora invece ci ricorda che il vero orrore non è la fine del mondo, ma quello che diventiamo quando succede.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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