Da Chiari a Milano, il romanzo «Cantare nel buio» di Maria Corti

Qualche volta anche Italo Calvino si sbagliava. L’inappellabile giudice dell’editoria italiana, nel 1982, aveva detto no alla pubblicazione per Einaudi del romanzo di Maria Corti. Secondo lui leggere «Il Treno della pazienza» era come «tornare indietro di trentacinque anni» e «riesumare» il neorealismo già classificato come «storia tutta minore». Maria Corti, docente e già filologa di fama internazionale, reagì stizzita e ritirò il manoscritto, affidandolo poi a Bompiani. Aveva ragione, invece, Geno Pampaloni a dire che la scrittrice si poneva «nel crocevia, perennemente percorso ma assai di rado occupato, ove si incrociano storia e natura, attualità e memoria». Intanto era cambiato il titolo del romanzo, diventato «Cantare nel buio», ma soprattutto ne era cambiata la natura.
La diatriba ora riemerge con la nuova edizione fresca di stampa (a conferma che Calvino aveva torto) e ci coinvolge perché quel romanzo tormentato è tutto innervato nel Bresciano. A Chiari Maria Corti visse fra la fine della guerra e i primi anni ’50. Abitava in piazza della Rocca, a due passi dal Ginnasio dove insegnava (lasciò un ricordo tanto vivo da meritarle la cittadinanza onoraria nel 1997 e l’intitolazione d’una via), e a due passi dalla stazione, dove prendeva il treno diretto a Milano per recarsi all’università. Puntava alla docenza che l’avrebbe portata in cattedra a Lecce e infine a Pavia.
Il libro
Sul treno dei pendolari è nato il romanzo che ora torna in un’edizione critica della Tartaruga di Baldini & Castoldi (256 pp., 19 euro). Scritto fra l’inverno del 1947 e l’estate del ’48, fu presentato nel 1949 ad un premio letterario a Lugano, segnalato dal filologo Gianfranco Contini, allora docente a Friburgo, che ben conosceva Chiari perché clarense era suo padre Riccardo. Il manoscritto però rimase nel cassetto fino al 1981, quando, in parte, uscì in una plaquette edita dal Farfengo di Brescia, con introduzione di Lento Goffi e incisioni di Giovanni Repossi. Maria Corti lo riprese in mano più volte quel testo, fino al 1982, per proporlo alla Einaudi, ricevendo lo sdegnoso diniego di Calvino. Bompiani, invece, lo pubblicò nel 1991 (in copertina un’immagine di Enio Molinari, fotografo-artista clarense), raccogliendo ampi consensi.

Con quel romanzo, infatti, ora inizia la ripubblicazione integrale delle opere di Maria Corti, a cura di Benedetta Centovalli. La editor e critica, allieva dell’autrice, sostiene che «Cantare nel buio» è forse «l’unico vero romanzo di Maria Corti» e spiega che «nelle sue varie stesure si allontana dal clima neorealistico per trasformarsi in una favola antropologica, dando voce a quel mondo barbaro e surreale del protopendolarismo padano che lei stessa aveva vissuto negli anni del suo insegnamento al ginnasio di Chiari, quando una comunità di lavoratori pendolari, nella Lombardia dell’immediato dopoguerra, viaggiava in carri bestiame per raggiungere a Milano la fabbrica della speranza».
Padri e figli alle cinque del mattino inforcano la bici per andare in stazione. Mantelli neri e sciarponi, a pedalare nella nebbia che «fa sparire e ricomparire la campagna». Voci appannate dal sonno all’alba, schiene spaccate dalla fatica la sera. Si viaggia come si può: i «gnari» sdraiati sul tavolato a sonnecchiare, altri seduti sui portelloni, le gambe a penzoloni nel vuoto. Tra di loro, anche la giovanissima professoressa. Capitoli-racconti sgranano giornate di fatiche inaudite, di speranze deluse, di attese pazienti. L’embrione d’una consapevolezza di classe s’intreccia con paure e sopraffazioni, rabbia e violenza. Illusioni d’amore e ladri di biciclette. Parlano al futuro: «Ciascun pendolare con la sua idea segreta, la sua allettante scorciatoia». Quel treno è «un rumoroso stato d’animo generale».
A Chiari
Intense sono le pagine dedicate a Chiari. Dietro le vetrate di Villa Mazzotti luccicano le serate della borghesia danzante. Le cascine aggregano solidarietà ed egoismi. E dalla torre campanaria Cecco osserva il mondo. Reale e vivo ancora nella memoria collettiva, «Ceco turesà» viveva in una stanzetta sul campanile e da lassù col rintocco delle campane segnava il tempo dell’allegria e della sofferenza. «Cantare nel buio» dà voce ad un mondo che sta cambiando pelle: «Gli operai quella sera respiravano l’aria della primavera e dopo un po’ non si sentirono più di stare seduti in silenzio». Un fischiettare dal fondo del carro, quindi una voce, poi un coro. «In virtù di quel canto tutti partecipavano di una stessa melodia sotterranea, che muoveva dalle profondità del loro io... Il canto era lento, all’apparenza indolente, ma faceva pensare alla brace che resiste accesa tutta la notte sotto la cenere del camino».
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