Alessio Arduini: «Pronto ad essere una belva teatrale»

«Mi è capitato di cantare Mozart e Puccini a Parigi, a New York, a Londra, in cast in cui ero l’unica voce italiana: una situazione paradossale». Il baritono desenzanese Alessio Arduini, da due lustri attivo all’Opera di Vienna, ogni volta che ritorna in Italia racconta la sorpresa di un’arte tanto amata quanto fragile. In novembre ha aperto la stagione del San Carlo di Napoli, come Guglielmo in «Così fan tutte», diretto da Muti; in dicembre è stato Dandini nella «Cenerentola» a Padova col maestro Allemandi; in giugno lo attende il ruolo per lui inedito di Don Giovanni alla Fenice di Venezia, parte che ripeterà all’Opera di Roma.
«All’apparenza la scrittura di Don Giovanni sembra facile - spiega Arduini -. In realtà è un personaggio complicatissimo per l’universo di sfumature e accenti che richiede. C’è bisogno di maturità, profondità, peso, consapevolezza. Una voce troppo giovane ne renderà in minima parte la multiforme verità scenica; solo adesso, passati i trent’anni, mi sento pronto ad affrontarlo. Sono arrivato a Don Giovanni a ritroso: provengo dal repertorio semiserio belcantistico e donizettiano, dall’opera buffa di Rossini, perfino dal verismo (Taddeo in "Pagliacci"). Esperienze propedeutiche che hanno illuminato la mia strada. Il palcoscenico ha poi chiarito meglio chi sono».
Chi è Don Giovanni? È l’istinto animale: predatore e menzognero, ribelle, libertino, peccatore. La sua «Serenata» è un inganno, «Metà di voi qua vadano» organizza una truffa, «Fin ch’han dal vino» maschera la sregolatezza. È una belva teatrale: senza rimorsi. Impulsivo e cacciatore, sregolato, eccessivo. La debolezza è la sua peggior tentazione. Nella lettura di Damiano Michieletto, regista del mio debutto veneziano, tutto ruota attorno alla figura del Burlador. Dominano velocità e dinamismo, un movimento perpetuo e dispendioso. Il clima è quasi angosciante, tutto appare immerso nella violenza e nell’oppressione psicologica, in una decadenza di valori e di punti di riferimento. Don Giovanni è la forza vitale dell’intera vicenda, risucchia l’energia degli altri personaggi. Come sempre in Mozart, si va in profondità, ma salendo. Per la nuova produzione dell’Opera di Roma mi attendo grandi cose dalla visionarietà di Graham Vick; con lui ho chiuso la trilogia dapontiana a Napoli in dicembre.
Cosa chiede e cosa dà Riccardo Muti? In questo momento Muti rappresenta l’opera lirica italiana nel mondo. Di fronte a lui provi ammirazione, soggezione, rispetto. Ottiene il massimo in precisione e pulizia, è attento a quei dettagli fondamentali che sfuggono per fretta e disattenzione. È capace di portare tutti i colori dell’orchestra sul palco. Spesso è una gara fra chi canta o suona più forte: con Muti, al contrario, gli spessori e le sfumature riacquistano il loro significato. Non ho mai dovuto forzare un suono. Quando incroci il suo sguardo è come se ti dicesse: «Non ho ancora finito di ascoltarti. Vai avanti così». Non è mai sazio.
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