Strage piazza Loggia, Giacomazzi: «Costretta ad accusare tanti innocenti»

Torna in aula il processo a Roberto Zorzi, presunto esecutore materiale della strage di piazza della Loggia. Torna in aula Ombretta Giacomazzi, la teste chiave dell’accusa. La donna, minorenne all’epoca dell’attentato, ma spettatrice privilegiata delle dinamiche e delle relazioni che legavano i giovani neofascisti bresciani agli ambienti eversivi veronesi e ai quartieri generali dei servizi deviati, è interrogata dall’avvocato Stefano Casali, difensore dell’imputato.
Oltre a ricordare gli incontri alla caserma di Parona a Verona dove, a suo dire, carabinieri e neofascisti pianificarono l’attentato al Blue Note di Brescia che avrebbe dovuto essere compiuto la sera in cui Silvio Ferrari, il suo fidanzato, saltò per aria in piazza del Mercato trasportando un ordigno, Giacomazzi nelle precedenti udienze ha detto di aver subito il sequestro dei diari nei quali aveva annotato non solo le sue vicende di ragazza, a partire da quelle sentimentali, ma anche la sua presenza a quelle riunioni e a quegli incontri oggi al centro del processo. Giacomazzi disse che quei diari non le furono mai restituiti e che lei mai più li aveva ritrovati.
L’avvocato Casali ha trovato e presentato il verbale di restituzione alla madre della teste dei sei diari sequestrati nelle ore immediatamente successive alla strage. «Io non li ho più ritrovati - ha ribadito Ombretta Giacomazzi - non so che fine abbiano fatto». Agli atti non c’è traccia delle annotazioni «politiche». Nel fascicolo sono invece riprodotti i diari sequestrati a Giacomazzi, durante la sua detenzione a Rovereto nei quali è rimasta l’impronta delle dinamiche della sua giovinezza.
Giacomazzi è tornata poi a parlare dei veronesi, della Dyane attribuita a Zorzi, vista a Brescia la sera della morte di Silvio Ferrari e di proprietà di uno capi di Ordine Nuovo del Veneto, qual era Roberto Massagrande. «Nando Ferrari mi disse di non dire nulla della Dyane e dei veronesi. Me lo disse in tono serio, autoritario. Ma non ebbi paura. La paura nei suoi confronti mi venne dopo, quando Mario Labolani, suo amico, mi incontrò per strada e mi disse di stare zitta e di non dire nulla di Nando Ferrari».
Ombretta Giacomazzi ha parlato di nuovo del suo tormentato rapporto con le indagini e gli investigatori dell’epoca. Della sua detenzione a Venezia per falsa testimonianza. Del suo soggiorno obbligato a Rovereto e delle pressioni subite dagli inquirenti per fare i nomi di Buzzi, dei fratelli Papa, di Andrea Arcai, figlio del giudice Giovanni Arcai, di Arturo Gussago e di coinvolgerli nella morte di Silvio Ferrari o nella strage di piazza Loggia.
«Tutte cose false che mi hanno fatto dire. Cose delle quali non sapevo nulla. Io Arcai nemmeno lo conoscevo. Volevo bene ad Arturo Gussago, ma per tornare libera dovevo fare il suo nome e l’ho fatto. Ero in isolamento. Mi interrogavano per ore. Subivo interrogatori di continuo. Delfino mi diceva quello che dicevano gli altri e io li assecondavo nel tentativo di liberarmi».
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