Se l’acqua manca e la filiera energetica vacilla: chi decide cosa si spegne

Dighe, cabine elettriche, centrali idroelettriche, consorzi di bonifica, sale operative: è lì che si decide chi avrà l’acqua quando mancherà, chi continuerà ad avere corrente quando la temperatura salirà, quali territori verranno messi in sicurezza e quali resteranno esposti. Perché quando la pioggia manca, l’acqua non sparisce: viene assegnata. A decretarlo sono pochi soggetti, quasi mai visibili nel dibattito pubblico: l’Autorità di Bacino del Po, i Consorzi di Bonifica, i gestori delle grandi dighe alpine, la Regione. Dentro le stanze tecniche e politiche si stabilisce se l’acqua dovrà garantire il minimo vitale dei fiumi, irrigare i campi o produrre energia.
L’anno chiave in cui è diventato cristallino che questa condizione sta diventando routine è il 2022, quando le cronache si sono riempite di fotografie e di numeri che descrivevano una siccità arrogante, con il Po prosciugato e interi territori rimasti a secco. E la nostra provincia non ha fatto eccezione: una cinquantina di Comuni sono precipitati in sofferenza idrica, tanto da fare scattare la «massima allerta» declinata a suon di ordinanze per limitare l’uso dell’acqua (da Gussago a Orzinuovi, da Idro a Darfo, da Tremosine a Borgosatollo, solo per citare qualche esempio).

In quel frangente, i verbali raccontano di decisioni prese in emergenza: riduzioni dei rilasci, deroghe temporanee, priorità rovesciate. L’agricoltura ha invocato acqua, l’idroelettrico ha chiesto continuità, i sindaci e le Protezioni civili si sono fatti in quattro per garantire acqua nelle case. Per definizione, qualcuno ha perso: arrivati a quel punto, infatti, non era più (solo) una questione ambientale, ma era diventata una questione di gerarchia. La Lombardia ha costruito la propria forza produttiva sull’idroelettrico: copre il 61,6% dell’energia elettrica prodotta da fonti rinnovabili.
Chi controlla
Quando i bacini si abbassano, la produzione energetica crolla. Questo accade sempre più spesso, ma finora non è mai stato ufficialmente raccontato come «instabilità strutturale»: è stato semplicemente gestito come «fatto tecnico». Meno acqua significa meno elettricità disponibile da fonte interna e la compensazione avviene con gas, importazioni, prezzi all’ingrosso più alti. Ecco perché questa catena è politica: ha effetti diretti sulle bollette, sulla competitività delle imprese, sulla dipendenza energetica. Il punto è semplice: chi gestisce l’acqua condiziona l’energia e chi controlla le dighe partecipa al governo della rete.
La fragilità non sta solo nei chilometri di cavi, ma nei punti dove la rete si concentra: le sottostazioni di trasformazione, le cabine primarie, gli snodi che portano potenza verso le aree industriali sono i veri «ponti» del sistema elettrico. Quando saltano, interi territori restano al buio. Per questo esistono territori più esposti e il rischio blackout non è distribuito in modo uniforme. Le aree più dense di capannoni, logistica, centri commerciali e zone residenziali compatte sono le più fragili.
Le periferie industriali, le cinture urbane, le zone dove la rete è cresciuta per stratificazione e non per progetto sono le prime a saltare. Qui il conflitto è evidente: sono i territori che producono ricchezza a sopportare il rischio infrastrutturale più alto. Brescia, Bergamo, la bassa pianura, i grandi assi logistici: quando la domanda esplode per il caldo, è lì che si decide se la rete reggerà o no.
Chi sceglie dove mettere i soldi? Tradotto in filiera operativa: le linee generali sono responsabilità di Terna, le dorsali nazionali dipendono dal Ministero, le reti di distribuzione sono in mano a grandi operatori privati, la pianificazione è formalmente regionale. Sì, c’è (anche) una sovrapposizione di competenze. Molti investimenti passano per fondi europei e per il Pnrr, ma la destinazione territoriale raramente segue criteri di rischio climatico, più spesso segue invece equilibri politici e industriali. E il risultato è una mappa degli investimenti che non coincide con la mappa del rischio.
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