Piazza Loggia: «Delfino volle l’attentato, me lo disse un suo confidente»

«Petardone» un parola rimbombata spesso ieri mattina tra le pareti dell’aula dove la Corte d’assise sta processando Roberto Zorzi per la fase esecutiva della strage di piazza Loggia. Ne ha parlato Paola Mirandola, all’epoca dei fatti sorella adolescente di un ex compagno di collegio nonché migliore amico di Silvio Ferrari. Ne ha riferito Adele Viviani, novantenne ex imprenditrice che negli anni Settanta aveva frequenti relazioni con il capitano dei carabinieri Francesco Delfino e con alcune delle sue fonti più preziose.
La prima ha sostenuto che per suo fratello Silvio Ferrari non fu vittima di un incidente, ma di un omicidio. «Probabilmente perché voleva togliersi dal giro» ha detto la teste senza riuscire però ad indicare con precisione a quale giro suo fratello si riferisse. «Mi disse anche che Silvio era convinto che quello che stava trasportando ed era destinato al Blue Note fosse solo un grosso “petardone”, cioè qualcosa solo in grado di spaventare». Quell’ordigno fece ben di più: a causa della sua esplosione Ferrari morì dilaniato. La teste parla di quella notte e di quando la notizia arrivò a casa sua. «Ricordo che quella mattina – ha detto – il telefono squillava in continuazione. Che mio fratello era disperato. Diceva di volere andare a Brescia ai funerali per rivendicare la morte di Silvio. Ricordo mia mamma glielo impedì, gli portò via le chiavi della macchina. E fu un bene, visto quanto accadde».
Della morte di Silvio Ferrari, in casa Mirandola si parlò a lungo, ma mai con gli inquirenti. «Era venuto spesso da noi – ha proseguito la teste – si era fermato anche a dormire. Mio fratello in alcune occasioni gli aveva anche prestato dei soldi. Per tutta la vita perché nessuno sia mai andato a chiedergli niente di Silvio».
Confidenze
Del cap. Delfino, discusso comandante del Nucleo investigativo dei carabinieri all’epoca della strage, e dei suoi legami borderline ha invece raccontato Adele Viviani. L’anziana imprenditrice frequentava Gianfranco Ferrari, detto Franchino, rottamatore d’auto della Valtrompia conosciuto a più livelli. «Ferrari era molto amico del capitano Delfino – ha detto la signora – era un suo confidente. Gli faceva trovare refurtiva per fargli fare bella figura. Faceva rubare dei quadri, li faceva nascondere e poi glieli faceva trovare. In cambio Delfino chiudeva un occhio sulle sue attività illecite».
Dell’allora capitano dei carabinieri, la signora Viviani ha detto anche altro. «Veniva spesso a trovare me e mio marito, lo faceva sempre in borghese e con le auto che gli metteva a disposizione Franchino». Quest’ultimo «era convinto – ha riferito la testimone – che era intenzione di Delfino far mettere un petardone in piazza della Loggia per far incolpare e arrestare persone di destra. A dire di Franchino – aveva detto Viviani allora e l’ha confermato anche ieri – non era previsto che avvenisse una strage». La testimone ha ribadito altri concetti emersi negli interrogatori sostenuti nel 2014 con il capitano Giraudo. «Franchino Ferrari diceva che Arcai era un giudice giusto e che per questo fu coinvolto nelle indagini suo figlio Andrea».
Un’altra versione
Nel corso dell’udienza di ieri, oltre alle due testimonianze, la Corte d’assise ha acquisito due documenti prodotti dall’avvocato di parte civile Andrea Vigani. Si tratta delle copie dei quotidiani in edicola lunedì 6 maggio del 1974.
Smentiscono la versione fornita pressoché all’unisono da Pierangelo De Bastiani e Nico Venezia, i camerati veronesi che insieme a Roberto Zorzi ripiegarono a Brescia ai primi di maggio di quell’anno per consentire al primo di sottrarsi all’accusa del tentato omicidio di uno studente veronese reo di aver strappato un volantino di destra affisso fuori da scuola. Nelle scorse settimane, ribadendo la versione già fornita da De Bastiani, Venezia ha detto che una domenica, nei giorni dell’esilio forzato a Brescia, tornò a Verona con Zorzi per vedere una partita dell’Hellas. Che però quella domenica giocava sul campo del Foggia.
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