Peacekeeping senza Europa: le missioni di pace nel mondo che cambia

L’idea di una forza multinazionale di interposizione da schierare a tutela della futura pace in Ucraina resta al centro del dibattito politico globale. Ma l’impressione è che le operazioni di peacekeeping abbiano perso peso politico e non siano più la risposta per la soluzione dei conflitti. Un dato è incontrovertibile: in trent’anni l’Europa è passata dall’essere uno dei principali contributori in termini di forze Onu a un attore quasi marginale sul terreno, pur mantenendo un ruolo centrale nelle decisioni, nel finanziamento e nella definizione dei mandati.
Il peacekeeping Onu è oggi «africano» e «asiatico» per ciò che riguardi caschi blu, ma europeo e occidentale nelle decisioni. Dal 1995 ad oggi la partecipazione europea è passata dal 40% del totale a circa il 7% della componente militare. Che ne è dunque oggi del paecekeeping e più in generale delle missioni multilaterali di pace at large (comprendendo anche Osce, Ue, Unione africana e altre organizzazione regionali) in una fase storica in cui il mondo sembra più complesso e in cui pare essere venuto meno il multilateralismo? La mappa proposta dal Sipri, Stockholm international peace research institute restituisce l’immagine di un sistema ancora indispensabile per la gestione dei conflitti, ma profondamente segnato da squilibri geografici, limiti politici e una crescente frammentazione della governance della sicurezza internazionale.
Africa al centro
La mappa mostra una realtà in cui la domanda di stabilizzazione armata resta elevatissima, mentre la capacità politica di incidere sulle cause dei conflitti appare sempre più ridotta. Il primo dato strutturale è la centralità assoluta dell’Africa subsahariana.
Quasi l’80% del personale internazionale dispiegato opera nel continente africano, e le cinque missioni più grandi al mondo – da MINUSCA a UNMISS, passando per MONUSCO e AUSSOM – sono tutte concentrate lì. Non si tratta solo di una scelta operativa, ma di una delega implicita: l’Africa è diventata il luogo in cui la comunità internazionale «gestisce» l’instabilità cronica, spesso senza riuscire a trasformarla in pace duratura. Il peacekeeping, in questo contesto, assume sempre più i contorni di una politica di contenimento, più che di risoluzione, mentre singoli attori, si pensi alla Russia, propone ad alcuni Stati i propri militari come forza di stabilizzazione sostituendo gli europei (precisamente i francesi).
In ogni caso, le Nazioni Unite restano l’attore insostituibile, sia per volume di personale sia per capacità di legittimazione multilaterale. Tuttavia, la centralità quantitativa dell’Onu convive con una crescente fragilità politica. Le missioni più robuste operano in contesti in cui non esiste un vero processo di pace da sostenere, e il Consiglio di Sicurezza appare spesso paralizzato dalle rivalità tra grandi potenze. Il risultato è un peacekeeping «muscolare» (il robust peacekeeping), chiamato a supplire all’assenza di soluzioni politiche, con mandati ambiziosi ma strumenti limitati.
Organizzazioni regionali
Accanto all’Onu, cresce il peso delle organizzazioni regionali africane e delle coalizioni ad hoc. Unione Africana, ECOWAS e LCBC assumono un ruolo sempre più operativo, soprattutto nei teatri segnati dal jihadismo e dal collasso statale. Questa regionalizzazione della sicurezza è, al tempo stesso, una necessità e un rischio: da un lato consente risposte più rapide e contestualizzate, dall’altro accentua la frammentazione del sistema e solleva interrogativi sulla sostenibilità finanziaria, sul rispetto degli standard internazionali e sulla catena di comando politica.
Il ruolo dell’Unione Europea appare emblematico delle ambiguità occidentali. L’UE è molto presente in termini di numero di missioni, ma resta marginale sul piano militare. Le sue operazioni sono prevalentemente civili, di advisory e capacity building, e raramente superano poche centinaia di unità. È l’espressione di un approccio che privilegia ancora il «soft power», ma che fatica a confrontarsi con contesti di guerra aperta e violenza sistemica. La distanza tra ambizioni geopolitiche dichiarate e strumenti effettivamente messi in campo resta evidente. Infine, emerge un dato politico più profondo: il peacekeeping contemporaneo opera in un mondo meno cooperativo e più conflittuale rispetto al passato. Le missioni non sono più il coronamento di accordi di pace condivisi, ma spesso strumenti di gestione provvisoria del disordine. In assenza di un consenso strategico globale, le operazioni di pace rischiano di trasformarsi in presidi permanenti dell’instabilità, necessari per evitare il peggio, ma insufficienti per costruire il meglio.
In questo senso, il peacekeeping oggi non è in crisi perché fallisce, ma perché viene caricato di aspettative politiche che il sistema internazionale non è più in grado di sostenere.
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