’Ndrangheta, smentiti i pm di Brescia: «Non basta il richiamo mafioso»

È un braccio di ferro che da tempo va in scena a Palazzo di giustizia di Brescia. La Procura contesta il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso e, con puntualità, il giudice per le indagini preliminari o il Riesame cancellano l’aspetto mafioso non riconoscendolo. «Bisogna cambiare occhiali. Quelli che si utilizzano in certe regioni d’Italia qui non possono funzionare» aveva detto il magistrato bresciano Paolo Savio prima di trasferirsi alla Direzione nazionale antimafia.
In Cassazione
Per il momento il quadro non cambia. E i giudici continuano a smontare il castello accusatorio in salsa mafiosa costruito, in diversi inchieste, dai pm di Brescia. É accaduto anche recentemente e questa volta con una sentenza della Cassazione – le motivazioni sono di pochi giorni fa – che ha rigettato un ricorso della Procura guidata da Francesco Prete basandosi su un principio. «Non basta il richiamo alla ’ndrangheta né l’uso dell’intimidazione all’interno di un gruppo criminale per configurare il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso».
Il caso
Il caso in questione è quello di un gruppo sgominato quasi un anno fa al quale per la Procura bresciana «si era affiancato una consorteria mafiosa che si era imposto acquisendo la supremazia nel settore delle frodi fiscali realizzate attraverso l’emissione di fatture per operazioni inesistenti nel territorio bresciano».
Per gli inquirenti bresciani si trattata di un braccio operativo di un clan della ‘ndrangheta calabrese, ma secondo quanto scritto dalla Cassazione, nelle indagini il gruppo veniva descritto «come autonomo rispetto alle cosche calabresi, dotato di una propria organizzazione e operatività nel territorio bresciano». Questo elemento è decisivo: non trattandosi di una «locale» direttamente collegata alla struttura madre della ’ndrangheta, «non può operare automaticamente il principio per cui il carattere mafioso si presume in base al solo legame con l’organizzazione storica»
In questi casi, chiarisce la Suprema Corte, occorre dimostrare tutti gli elementi tipici del metodo mafioso e non è sufficiente la vicinanza personale o familiare con soggetti già condannati per mafia. Il cuore della decisione sta nella nozione di metodo mafioso, che non coincide con la mera commissione di reati gravi o organizzati.
Per integrare l’articolo 416-bis del codice penale, (associazione di tipo mafioso) è necessario che l’associazione si avvalga concretamente della forza di intimidazione del vincolo associativo, generando all’esterno una condizione diffusa di assoggettamento e omertà.
Nel caso esaminato, secondo i giudici della Cassazione, l’intimidazione emersa dalle indagini dei pm di Brescia era rimasta interna al gruppo o rivolta a poche persone. «Una pressione che serve a regolare rapporti interni o a estromettere concorrenti – si legge non equivale a una proiezione mafiosa verso l’esterno del tessuto sociale o economico».
La Cassazione sottolinea che «la forza mafiosa deve essere percepibile e riconoscibile all’esterno, tale da condizionare una pluralità indeterminata di soggetti». Nel caso dell’inchiesta sul maxi giro di fatture false, invece, «non è emersa una “fama criminale” autonoma del sodalizio, né una capacità intimidatoria capace di imporsi sul territorio bresciano in modo stabile e generalizzato».
La sentenza non nega la gravità del quadro indiziario, né l’esistenza di un’organizzazione stabile che si alimentava con frodi fiscali e riciclaggio. Ma chiarisce un punto fondamentale: non ogni criminalità organizzata è mafia. «Anche nei settori economici più opachi, come quello delle false fatturazioni, l’etichetta mafiosa richiede la prova di un salto di qualità, rappresentato dall’uso sistematico e riconoscibile del metodo intimidatorio».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato
@News in 5 minuti
A sera il riassunto della giornata: i fatti principali, le novità per restare aggiornati.
