«Con un figlio disabile non posso lavorare, per fortuna c’è la Caritas»

Lucia, 58 anni, abita in una casa popolare a San Polo. Fino a tre anni fa riceveva il Reddito di cittadinanza, ma con la sua cancellazione la sua vita è tornata a quella di un decennio fa. Con tutte le difficoltà annesse. «Dopo la scomparsa di mio marito ho dovuto farmi carico totalmente di nostro figlio, affetto da una disabilità dalla nascita. Ed è stato tutto più complicato». Dal 2015 Lucia ha dovuto smettere di lavorare come inserviente per occuparsi del figlio a tempo pieno. Qualche tempo dopo è arrivato il Reddito di cittadinanza. «Per noi è stata una manna dal cielo. È stato l’unico periodo in cui ho potuto fare a meno di ricorrere agli aiuti di Caritas». Poi, tre anni fa, un nuovo cambiamento. Arriva l’Assegno di Inclusione, che però erode diverse centinaia di euro di contributo alla 58enne. «E sono tornata alla Caritas, arrivare a fine mese anche solo per mangiare è difficile».

Lucia non ha neanche la possibilità di cercarlo un lavoro e di ricorrere alle altre forme di supporto statale, dovendo occuparsi di suo figlio. Così, come centinaia di altri bresciani, arranca e resta ai margini di una società che si accorge sempre meno di non può correre alla stessa velocità dei tempi moderni.

«È colpa mia?», si chiede con tono retorico ma decisamente amaro la donna. «Sono stata sfortunata, ma comunque non crediate non mi vergogni di non poter essere autonoma».

Ecco: la vergogna. Forse persino più gravi delle difficoltà economiche sono gli effetti psicosociali che colpiscono a pioggia chiunque si trovi in una situazione simile a quella di Lucia.

E sono troppo spesso sottostimati.