Tra mito e romanticismo: il Laocoonte della Pinacoteca

Dal gesso di Brera al marmo della provincia: la forza di un capolavoro
Il Laocoonte di Luigi Ferrari
Il Laocoonte di Luigi Ferrari
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Ti è mai capitato di sentirti incompreso? Sei convinto che le cose non vadano bene, che una minaccia incomba, così cerchi di mettere in guardia chi ti sta intorno ma nessuno ti crede. Ti senti soffocare, come se terribili anaconde ti stritolassero. Alla fine le tue profezie si avverano, ma non riesci a evitare il disastro, che travolge te, i tuoi cari e la tua patria. Incompreso e stritolato: eccoti, sei un Laocoonte.

La storia

Lui era un sacerdote, un veggente, un troiano e un padre. Quando i Greci lasciarono alle porte della sua città il celeberrimo equino di legno lui pronunciò l’epica frase virgiliana «Timeo Danaos et dona ferentes» (temo i Greci anche quando portano doni), la quale si utilizza quando qualcuno di cui non ci si fida si comporta stranamente bene.

Laocoonte era nel giusto quando sospettava che quel regalo nascondesse un imbroglio, nondimeno fu punito dagli dei. Giunsero dal mare enormi serpenti che uccisero lui e la sua prole, evento che convinse i Troiani a far entrare in città il cavallo che causerà la loro rovina. Nell’immaginario artistico collettivo tale episodio è rappresentato dal Laocoonte dei Musei Vaticani, scultura del I secolo d.C., ma lo stesso soggetto si trova, sempre in forma di statua marmorea, nella Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia.

In questo Laocoonte, opera di Luigi Ferrari allievo di Canova, vedi la paura, la sofferenza, la fatica di una persona che lotta invano per salvare i suoi figli e se stesso dall’ingiustizia di un’esistenza che non vuole dargli ragione, anche se lui in effetti ha ragione. Laocoonte sostiene con il braccio il corpo di uno dei suoi due ragazzi e fissa con orrore il cadavere steso ai suoi piedi dell’altro, mentre con le ultime forze si oppone ai mostri marini. Ma il suo sguardo disperato fa intuire che si è arreso di fronte alla morte dei figli.

Il gruppo scultoreo è vivo, parlante, intriso di sofferenza. È ottocentesco, figlio del Romanticismo, anche se di romantico in tale crudele scempio c’è ben poco. La prima versione, in gesso, fu esposta a Brera nel 1837. Fu accolta con tripudio e alcuni dissero che era meglio persino del prototipo d’epoca romana. Ma certi paragoni non hanno senso: che siamo di fronte a un capolavoro si capisce al primo sguardo.

Libertà

Lo pensò anche Paolo Tosio, che appena la vide se ne innamorò e ne commissionò una copia in marmo che non vide mai, poiché morì prima che Ferrari la finisse, nel 1853. Erano gli anni dei moti rivoluzionari (ai quali lo scultore partecipò attivamente) e in questo Laocoonte c’è anche il patriota che soffre per l’occupazione straniera, l’oppresso disposto a sacrificarsi per la libertà. In quest’uomo che muore sopraffatto dal più grande dei dolori un attimo prima di vedere la sua terra distrutta c’è tutto ciò che serve per amare la vita. E per imparare a diffidare dei cattivi che si presentano con falsi regali.

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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