La «gita» in Brianza di un bresciano visionario (e un po’ jellato)

Clementina Coppini
Uno dei capolavori di Lattanzio Gambara, pittore cinquecentesco tenuto in grande considerazione dal Vasari, si trova nella Collegiata di Vimercate
Il martirio di Santo Stefano di Lattanzio Gambara (1566)
Il martirio di Santo Stefano di Lattanzio Gambara (1566)
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Un bel giorno Lattanzio Gambara viene chiamato a Vimercate, in Brianza, a dipingere la chiesa principale del paese. Siamo nella seconda metà del Cinquecento e l’artista trentenne, figlio di un sarto e collaboratore del Romanino, gode di una discreta fama (Giorgio Vasari, che di pittura s’intendeva, lo riteneva il miglior pittore bresciano di quell’epoca).

Purtroppo il Gambara nei secoli successivi non è stato particolarmente baciato dalla fortuna, visto che molte sue opere sono andate perdute e, come se non bastasse, le Storie dell’Apocalisse realizzate nel Broletto di Brescia sono andate distrutte da un bombardamento americano nel luglio del 1944.

Il povero Lattanzio, che allora non poteva sapere delle disgrazie a cui sarebbe andata incontro la sua produzione, verso i 35 anni decide di cambiare aria e va a Venezia, dove per un anno dipinge varie opere, purtroppo anch’esse finite non si sa dove. L’anno seguente riceve la sopraccitata commessa vimercatese da parte della Confraternita della Concezione per la Collegiata di Santo Stefano.

Nasce così quello che è considerato uno dei suoi capolavori, che e per fortuna c’è ancora (così come sono tuttora in sede, a testimonianza della sua bravura, gli affreschi che in seguito realizzerà nel Duomo di Parma). Anche stavolta il talentuoso giovane un po’ di malasorte ce l’ha, visto che per qualche bizzarro motivo viene smarrito il ricordo di chi sia l’autore del ciclo pittorico e solo nel 1988 vengono ritrovate sull’affresco la sua firma e l’anno di esecuzione, il 1566, lo stesso che corrisponde alla visita pastorale a Vimercate di Carlo Borromeo, neo-eletto arcivescovo di Milano (era all’inizio delle sue chirurgiche peregrinazioni).

L’opera

Ma ecco, a ricoprire la volta dell’abside, il maestoso affresco del martirio di Santo Stefano, di colui cioè che è considerato il primo martire del Cristianesimo.

La parte bassa è una sorta di descrizione cinematografica della vicenda: condanna, lapidazione, sepoltura. Sopra, nel semicatino, appare come una visione immaginifica la Gerusalemme Celeste, con Dio Padre, Gesù, la Madonna e Angeli che danzano leggeri. Nel centro dell’affresco il protomartire, in ginocchio, è illuminato dalla luce divina, mentre i suoi carnefici, sulla destra, sono colti nell’attimo in cui raccolgono i massi o si preparano a lanciarglieli addosso.

La loro violenza è trattenuta, come fossero paralizzati non già dal chiarore bensì dal loro cuore di pietra. L’abbinamento di martirio ed Empireo è altamente scenografico. Lo spettatore viene come assorbito dallo spettacolo, da una parte crudo e dall’altra sfolgorante. Un insieme schematico e di grande effetto, che spiega in poche ma efficaci immagini la grandezza del sacrificio, l’insulsaggine della crudeltà e l’ineffabile calma dell’Eterno. Nessuno guarda in alto, solo Stefano. Il quale ci invita a sollevare lo sguardo, a non pensare ai sassi ma alle nuvole.

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