Strage Cottarelli, ecco perché Salvatore Marino è stato assolto

Pubblicate le motivazioni della sentenza d’appello che ha azzerato l’ergastolo a carico del 61enne
La villetta di via Zuaboni, teatro della strage della famiglia Cottarelli - © www.giornaledibrescia.it
La villetta di via Zuaboni, teatro della strage della famiglia Cottarelli - © www.giornaledibrescia.it
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Per condannarlo occorrono riscontri al racconto - credibile solo a metà - di Dino Grusovin. Servono elementi di prova e ragionamenti di «forza dimostrativa» tale «da poter superare le argomentazioni» che la Corte d’assise di primo grado di Brescia, presieduta all’epoca da Anna Di Martino, utilizzò per assolvere. Servono argomenti che nessuno ha mai trovato. Questo, in sintesi, il ragionamento che ha portato i giudici della Corte d’assise d’appello di Milano ad assolvere Salvatore Marino, il 61enne trapanese accusato dalla procura di Brescia della strage di Urago Mella del 28 agosto del 2006, nella quale furono trucidati Angelo Cottarelli, sua moglie Marzenna Topor e loro figlio Luca, solo 16 anni, in concorso con il cugino Vito Marino (nel frattempo deceduto) e con il suo accusatore Dino Grusovin, condannati invece con sentenze definitive rispettivamente all’ergastolo e a 20 anni.

Motivi rafforzati

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15 ANNI FA LA STRAGE DI URAGO MELLA

I giudici milanesi (presidente Renata Peragallo, estensore Maria Greca Zoncu) si fanno bastare 39 pagine per assestare un colpo che potrebbe rivelarsi letale alla ricostruzione del pentito triestino e dell’accusa. Dopo aver passato in rassegna le precedenti nove pronunce - oltre all’assoluzione in primo grado a Brescia, anche le quattro condanne in appello e i quattro annullamenti con rinvio pronunciati dalla Cassazione - fanno la radiografia alle prove che hanno portato Salvatore Marino all’ergastolo, ma che per la Suprema Corte non offrono il «convincimento rafforzato» necessario per accreditare Grusovin e zittire qualsiasi dubbio di innocenza.

In quest’ottica il superteste oculare che disse di aver visto il 61enne difeso dall’avvocato Giuseppe Pesce nel commando che quella mattina stazionava fuori dalla villetta in via Zuaboni in realtà è un super abbaglio. Ammesso e non concesso che questo teste - nel frattempo deceduto - l’abbia visto davvero, se l’ha notato l’ha fatto il giorno prima del triplice omicidio. Chiamato al riconoscimento dell’imputato dal presidente Di Martino, nel corso del primissimo processo, il testimone disse che l’uomo avvistato «aveva i capelli molto più scuri e molto più folti, con l’attaccatura molto più bassa».

«Queste dichiarazioni - scrivono i giudici milanesi - riguardano un momento diverso da quello dell'omicidio, e dunque non possono avere nessun rilievo, ma in ogni caso sono ben lontane dal fornire una qualche certezza sulla individuazione dei componenti del gruppo». Il fatto che Salvatore Marino - che ha passato sette anni in custodia cautelare in carcere - fosse con il cugino Vito a Milano il giorno prima del delitto, che i due avessero viaggiato in auto dalla Sicilia, a differenza delle occasioni precedenti e che invece di scegliere l’albergo avessero preferito soggiornare a casa Grusovin per i giudici non è indice della volontà di non lasciare traccia del loro passaggio. «Se davvero avessero voluto precostituirsi un alibi, non solo avrebbero dovuto non viaggiare in aereo, ma avrebbero anche dovuto evitare di prendere a noleggio un’auto pagando con carta di credito» come invece hanno fatto.

La dimostrazione della presenza di Salvatore Marino nella taverna del massacro non è provata nemmeno dalle tracce di polvere da sparo trovate sulla Grande Punto presa a nolo per il viaggio da Milano a Brescia di Vito Marino e sulla Bmw utilizzata per la lunga trasferta da e per la Sicilia. La circostanza «non deve stupire, stante il fatto incontrovertibile» che quelle furono le auto - si legge in motivazione - sulle quali «Vito Marino viaggiò dopo aver sparato alle vittime». Anche il dato che Salvatore Marino non si portò il cellulare - per l’accusa per non lasciare tracce - per la Corte d’assise d’appello non dà «la certezza che l’imputato fosse partito dalla Sicilia con l’intento di non rendersi rintracciabile, avendo pianificato insieme al cugino un grave evento delittuoso». Mentre la compatibilità delle fascette da elettricista trovate sul camion del 61enne con quelle strette ai polsi delle vittime «non può nemmeno considerarsi un riscontro esterno, stante il numero di fascette che inonda il mercato».

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Congetture

Risultato? Nell’abbondante materiale probatorio scandagliato in tre lustri per i giudici milanesi non c’è nulla che possa «collocare al di là e al di fuori di mere congetture logiche Salvatore Marino a Brescia il giorno dell’omicidio». E d’aiuto per la Corte d’appello di Milano non è stato nemmeno Grusovin, chiamato a processo anche nel maggio del 2021. «Esibisce incertezze» scrivono a più riprese i giudici per i quali emerge con «lampante evidenza che nessuno dei collegi che si sono succeduti e che sono pervenuti a decisioni di condanna sia riuscito ad individuare quei riscontri necessari per corroborare le sue dichiarazioni, né a fornire una motivazione rafforzata volta a confutare il ragionamento che condusse la Corte d’assise di Brescia ad assolvere Salvatore Marino». Accadeva il 27 settembre del 2008, 14 anni fa.

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