Spari contro lo Sprar di Collebeato, un imputato: «A quell’ora ero già a casa»

Le versioni degli accusati per i cinque colpi esplosi contro l'appartamento dove erano ospitati richiedenti asilo a maggio 2020
La casa di Collebeato verso la quale vennero esplosi i colpi nel 2020 - Foto © www.giornaledibrescia.it
La casa di Collebeato verso la quale vennero esplosi i colpi nel 2020 - Foto © www.giornaledibrescia.it
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Uno, secondo la sua testimonianza, quella della madre e del fratello, era già a casa da due ore. L’altro, secondo quanto sostiene una perizia tecnica difensiva, non era con gli altri imputati. Ieri mattina nell’ambito del processo in dibattimento per gli spari contro l’appartamento Sprar a Collebeato in cui erano ospitati richiedenti asilo esplosi nella notte tra il 30 e il 31 maggio del 2020 hanno parlato i testi della difesa.

Per quella vicenda nel procedimento in abbreviato era stato condannato a due anni e otto mesi per il porto dell’arma Adriano Raccagni, mentre erano stati assolti Alan Danesi e Rolando Bonassi. In quella sede, le conclusioni del pm, evidenziarono che i colpi di pistola furono esplosi non per un questione di odio razziale, come si era ipotizzato, ma perché i giovani stranieri avevano probabilmente visto uno scambio di droga.

Assistito dall’avvocato De Stefano Grigis, Daniel Ferraboli, uno degli imputati che oggi ha 26 anni, ha raccontato tutta la sua giornata del 30 maggio dall’incontro con gli amici al parco nel pomeriggio fino all’ultima tappa, attorno all’una di notte «sotto il portico dove c’era mio fratello con i suoi amici perché avevo dimenticato le chiavi di casa. All’una e trenta sono entrato in casa e non sono più uscito». Versione confermata dal fratello, dalla madre e dagli amici del fratello. Gli spari sono stati registrati attorno alle 3 quando, secondo questa versione, Ferraboli era già a casa.

L’avvocato Giovanni Frattini, che difende l'altro imputato, Pietro Salucci, ha chiamato in aula il consulente tecnico Michele Vitiello che in una lunga perizia informatica ha spiegato come ritenga che le celle telefoniche agganciate dal suo telefono dimostrano che non era insieme agli altri nell’orario in cui si sono svolti i fatti. Con un esperimento ha messo poi in dubbio che la felpa descritta dalle vittime fosse proprio quella di Salucci.

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