Sergio Albertini: «Brescia non può sprecare altro capitale umano»

L'economista e docente dell’UniBs per «Interviste allo specchio», condivise con L’Eco di Bergamo nell'anno della Capitale della Cultura
Sergio Albertini, economista e docente dell'UniBs - © www.giornaledibrescia.it
Sergio Albertini, economista e docente dell'UniBs - © www.giornaledibrescia.it
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Questa intervista è parte del progetto «Interviste allo specchio», condiviso con L’Eco di Bergamo e nato in occasione del 2023, l’anno che vede i due capoluoghi uniti come Capitale della Cultura 2023. Ogni domenica i due quotidiani propongono l’intervista a due personaggi autorevoli del mondo culturale (nell’accezione più ampia), uno bresciano e uno bergamasco, realizzate da giornalisti delle due testate. Di seguito trovate l’intervista al personaggio bresciano. Per scoprire il contenuto dell’intervista all’omologo bergamasco, invece, vi rinviamo a L'Eco di Bergamo (in calce all’intervista trovate il link diretto alla pagina dedicata del quotidiano orobico).

Stiamo vivendo una fase storica particolare, in cui non è poi così complicato trovare un’occupazione. Il lavoro c’è. Eppure l’Istat calcola che è in aumento la percentuale dei «neet», acronimo con cui si definisce quella parte della popolazione con un’età compresa tra i 15 e i 29 anni e che non è occupata né inserita in un percorso di formazione. Pochi giorni fa, inoltre, anche un’analisi diffusa dalla Camera di Commercio di Brescia stimava che nella nostra provincia vi sono oltre 33mila potenziali assunzioni nel trimestre aprile-giugno, ma almeno la metà dei posti rimarrà vacante. «In effetti, la dinamica del mercato del lavoro in questa fase mostra come le curve della domanda e dell’offerta non si incontrino in termini quantitativi e, soprattutto, qualitativi», conviene il prof. Sergio Albertini, docente di Organizzazione aziendale all’Università degli studi di Brescia.

Come spiega questa situazione paradossale?

«Sull’offerta pesa molto il rallentamento demografico degli ultimi decenni. Rispetto al passato sono pochi i giovani che si offrono sul mercato del lavoro. In aggiunta le giovani leve hanno un grado di scolarizzazione più elevato, possono godere di situazioni economiche familiari agiate e quindi possono permettersi di temporeggiare e di posticipare l’ingresso nel mercato del lavoro in attesa di un posto “soddisfacente” (ecco i neet e i giovani inattivi “scoraggiati” che si aggiungono alle donne, tradizionalmente poco propense a cercare attivamente lavoro). Dal lato della domanda, le imprese non offrono posizioni attrattive per i giovani. Salari d’ingresso molto bassi e spesso ruoli organizzativi poco gratificanti (il modello "familiare" non è considerato "desiderabile" dai giovani) determinano in parte la difficoltà a coprire i posti vacanti. È necessario intervenire perché questo paradosso determina uno spreco di capitale umano per l’intero sistema Brescia».

Come interverrebbe?

«Sulle soluzioni praticabili il discorso è più complesso. Dal lato dell’offerta, oltre ad una nuova regolamentazione dei flussi di lavoratori immigrati e della loro relativa selezione e integrazione, serve un’azione più incisiva delle strutture formative professionali e universitarie. Il punto chiave è il passaggio da una formazione che rincorre i bisogni correnti delle imprese ad una formazione intelligente e “strategica” anticipatrice dei bisogni effettivi di competenze (anche comportamentali oltre a quelle strettamente professionali) del sistema delle imprese private e pubbliche. Dal lato della domanda, allo stesso modo, si richiede una discontinuità forte anche sul piano culturale. Innanzitutto le imprese per essere attrattive, soprattutto nei confronti dei giovani, devono offrire stipendi e salari d’ingresso significativamente più elevati e contesti organizzativi caratterizzati da un maggiore benessere organizzativo (ambiente di lavoro confortevole, buone relazioni con i capi e i pari grado, possibilità di crescita professionale e di carriera meritocratica e non basata sull’appartenenza)».

In un suo recente intervento ha sollevato la questione dei «working poor», ossia di quei lavoratori che pur avendo un’occupazione si trovano in una situazione di povertà e di esclusione sociale. È un fenomeno che lei riscontra anche a Brescia?

«Il fenomeno dei working poor è uno dei problemi centrali soprattutto per la provincia di Brescia. Nonostante i recenti positivi risultati in termini di produzione e di export, tale ripresa non si ripercuote positivamente sui livelli salariali. La ricchezza prodotta non produce l’atteso “effetto sgocciolamento” e le briciole che cadono dal tavolo dei più abbienti sono sempre meno consistenti con il conseguente allargamento della diseguaglianza tra redditi alti e redditi medio bassi». 

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