Quell'amore che amore non è: cos'è la dipendenza affettiva

Ameya Gabriella Canovi, psicologa di sostegno ed esperta in relazioni, fa luce su un disagio emotivo molto doloroso
Un uomo e una donna © www.giornaledibrescia.it
Un uomo e una donna © www.giornaledibrescia.it
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Relazioni disfunzionali che possono arrivare, come esiti estremi, all’eliminazione dell’altro. Se il maltrattamento è già un apice allarmante, esiste tutta una gradazione di disfunzionalità affettive che vengono spesso percepite come «normali» o addirittura caratteristiche di un «grande amore», ma che in realtà nulla hanno a che fare con esso.

A influenzare la creazione di una sensibilità distorta non è solo il proprio trascorso personale, la propria storia, ma anche il percepito collettivo, le rappresentazioni sociali dell’amore (spesso descritto come sofferente), della gelosia come sigillo di un rapporto di valore, dei litigi come spezia irrinunciabile da spargere nella relazione. 

Per capire meglio il tema delle relazioni, quando sono sane e quando no, che significa sentire un malessere paralizzante, cosa fare per stare meglio, abbiamo interpellato Ameya Gabriella Canovi, psicologa che si occupa da anni di problemi di comunicazione, relazione e dinamiche di coppia. Autrice del blog online «Di troppo amore» dove affronta queste tematiche, è attiva sui social dove gestisce su Facebook la pagina Di troppo amore e su Instagram dove condivide esperienze di cura. Ha preso parte, in virtù della sua specializzazione, ad una puntata del podcast di Selvaggia Lucarelli Proprio a me dedicato alla dipendenza affettiva vissuta in prima persona dalla giornalista e da altre persone di cui si racconta la storia. Dal podcast è nato il libro Crepacuore, storia di una dipendenza affettiva, in uscita il 16 novembre che porta la prefazione della dottoressa Canovi. 

Dottoressa Canovi che cos’è la dipendenza affettiva? «Non riuscire a funzionare senza l’altro. È così che posso rendere semplice un costrutto psicologico che invece è complesso dal momento che si sovrappone alla dimensione affettiva di cui l’uomo ha bisogno. È utile inoltre, per inquadrare il tema, sapere che la dipendenza affettiva è classificata, dal 2013, nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali V come una New addiction, ovvero una nuova dipendenza al pari del gioco d'azzardo, del sesso, dello shopping o del lavoro».

Come ci si rende conto di essere dipendenti? «Dico sempre: "Da 1 a 100 quanto?". Quando si avverte l’altro come un bisogno assoluto al pari di una sostanza e quando la "dose" manca si va in astinenza. Due persone affettivamente autosufficienti affrontano l'interruzione della realzione elaborando il lutto e andando oltre. Quando si è in una relazione disordinata, non ci si riesce a staccare dall’altro, la persona dipendente non riesce a reggere il rifiuto: l'elaborazione della fine del rapporto non si innesca, ma si vive in uno stato di dolore molto acuto».

Perché accade? «Spesso chi dipende ha un io molto acerbo, l’affettività di queste persone è simile a quella di un bambino piccolo, è come congelata a quello stadio infantile. Immaginiamo un bimbo piccolo che vede allontanarsi la propria mamma, uscire dalla stanza: sappiamo che reazione si innesca. La stessa cosa accade in questo genere di relazione. Se l’altro si sposta, si stacca, rifiuta o abbandona, il soggetto dipendente vive la cosa come devastante e il grado di malessere è elevatissimo. La persona cerca di compensare il proprio vuoto attraverso l’altro. Ma l’altro si sentirà, se affettivamente autonomo, soffocato dalla richiesta di accudimento e si staccherà».

È proprio il «quanto fa male» a dover mettere in guardia e a spingere il soggetto ad una riflessione più profonda. «La persona vive un malessere così acuto, molto spesso percependo anche sintomi di malattia fisica, perché non è risolta, non possiede psicologicamente la sicurezza affettiva in grado di stabilizzarlo».

È possibile smettere? «Nel mio lavoro quotidiano, sostengo le persone fuori da un attaccamento morboso dall’altro: credo si possa imparare a vivere in maniera emotivamente autonoma, vivendo la relazione come luogo di condivisione e non di “tossicodipendenza”. Quindi sì, è possibile smettere nella misura in cui si decide di andare a vedere dove il filo che lega il nostro sviluppo emotivo si è spezzato».

Che cosa accade quando un uomo arriva a sopprimere la propria ex compagna? «L’eliminazione dell’altro è un urlo di impotenza. La persona che arriva ad uccidere l’altro non regge la propria incapacità, avverte di non avere potere sulla donna. Avviene una distorsione affettiva tale che l'altro è imprescindibile per la propria esitenza: la frustrazione diventa così ingestibile che si è disposti addirittura ad uccidere. In questi casi si manifesta in maniera estrema tutta l’incapacità, la disperazione e l’assenza totale di strumenti psicologici per gestire il distacco. Nella mente si crea una equazione distorta secondo la quale se si elimina l’altro, si elimina il proprio problema. Ci si illude di uccidere il proprio bisogno attraverso l’uccisione dell’altro. Ecco perché non si può usare la scusante del raptus per giustificare i femminicidi. Spesso chi uccide proietta il proprio caos emotivo sull’altro. Eliminando l’altro pensa di uccidere la propria fragilità riflessa nella donna. L’uomo che arriva all’omicidio uccide la propria fragilità ovvero una parte di sé inacettabile».

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