Omicidio Maioli, il marito assolto anche in Cassazione: «Affetto da delirio di gelosia»

Quando ha ucciso la moglie Antonio Gozzini non era capace di intendere e volere. A sostenerlo, oltre ai giudici di primo e secondo grado, da giovedì sono anche i magistrati della Corte di Cassazione.
Sull’assoluzione dell’82enne che tra il 3 e il 4 ottobre del 2019 uccise Cristina Maioli colpendola ripetutamente con un mattarello e un coltello da cucina, per poi vegliare il suo cadavere tutta la notte e chiedere alla vicina di casa di dare l’allarme, scende così l’ultimo sipario. Da ieri nulla più potrà modificare il corso della giustizia e la valutazione sul conto dell’anziano che confessò l’omicidio di via Lombroso fatta da consulenti intervenuti nel processo di primo e di secondo grado e risultati concordi nel ritenere l’uomo affetto da «un delirio di gelosia patologico» capace di azzerare la sua capacità di intendere, ma anche di governare il suo volere tanto da spingerlo alla brutale aggressione pagata dalla 60enne con il bene più prezioso.
La malattia
Gli psichiatri che valutarono la sua psiche - Sergio Monchieri su incarico del pm Claudia Passalaqua e Giacomo Filippini su incarico del difensore dell’imputato Jacopo Barzellotti - concordarono sull’esistenza in Gozzini di un «disturbo intrusivo, tale da compromettere l’esame della realtà attraverso giudizi e associazioni del pensiero del tutto irrazionali», ma anche di «rielaborazioni deliranti» afferenti proprio al tema della gelosia.
Facendo sintesi della valutazioni dei consulenti di accusa e difesa, i giudici di primo grado conclusero per un vizio totale di mente, dovuto proprio ad un delirio di gelosia. «Vanno tenuti ben distinti il delirio da altre forme di travolgimento della facoltà di discernimento che, non avendo base psicotica, possono e debbono essere controllate attraverso la inibizione della impulsività ed istintualità» scrisse nelle motivazioni di primo grado il presidente della Corte d’assise Roberto Spanò. «Appare necessario non confondere i disturbi cognitivi - proseguiva la motivazione di primo grado - con le episodiche perdite di autocontrollo sotto la spinta di impellenti stimoli emotivi; la liberazione dell’aggressività in situazioni di contingenti crepuscoli della coscienza con la violenza indotta dalla farneticazione nosologica», ovvero dalla malattia.
Risentiti in appello gli psichiatri ribadirono che l’anziano - ora in cura nella Rems di Castiglione delle Stiviere - era in una condizione patologica che lo aveva indotto a reintepretare in modo acritico eventi di banalità assolute (a partire dalle cene che la moglie aveva avuto con i colleghi dell’Itis). Pur senza averne le prove, per Gozzini il tradimento - spiegarono Monchieri e Filippini - era una verità dogmatica. Di vero anche per i giudici di appello però c’era solo il delirio, la malattia, l’incapacità. Una verità sulla quale da giovedì concorda anche la Cassazione; una verità che non ammette più prova contraria.
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