«Mara Cagol un simbolo? Offende la memoria di mio padre»

La trasmissione «Messi a fuoco», in onda questa sera alle 20.30 su Teletutto, si occuperà di uno dei periodi più bui della storia repubblicana con testimonianze dirette e interviste. Tra i numerosi ospiti, in collegamento ci sarà Francesco Cattafi, figlio del maresciallo Rosario Cattafi rimasto ferito nel conflitto a fuoco in cui l’11 giugno 1975 morì Margherita Cagol, conosciuta anche con il nome di battaglia "Mara", fondatrice col marito Renato Curcio delle Brigate Rosse oltre ad un collega, l’appuntato Giovanni D’Alfonso, che non sopravvisse alle ferite riportate e spirò dopo alcuni giorni di agonia in ospedale. Ecco l'intervista rilasciata al GdB.
Ha scelto di diventare psicologo prima di tutto per curare se stesso. «Ma ogni volta che si parla di terrorismo, la ferita si riapre. E fa malissimo» ammette Francesco Cattafi. Nato in Piemonte, oggi vive a Rovato e ha 57 anni, due in più rispetto a quelli che aveva il padre il giorno in cui morì. Suo padre era il maresciallo Rosario Cattafi, che da comandante dei carabinieri di Acqui Terme il 5 giugno 1975 fu coinvolto e gravemente ferito - nella cascina Spiotta d’Arzello dove era stato nascosto l’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia -, nel conflitto a fuoco in cui morirono un collega, l’appuntato Giovanni D’Alfonso, e Margherita Cagol, che con il marito Renato Curcio aveva fondato le Brigate Rosse.
Oggi il nome della donna è stato inserito nel libro le «33 trentine», dedicato alle scuole medie e voluto dalla commissione Pari opportunità della città, come simbolo e figura da ricordare del territorio di Trento.
Francesco Cattafi, come l’ha presa?
«Abbastanza male. Posso comprendere le ragioni a livello accademico e capisco che si faccia un’indagine storiografica sulla propria città e sui personaggi che l’hanno caratterizzata. Immagino che a Trento però ci siano migliaia di donne che hanno avuto in maniera specifica un impatto molto più importante di quello di Margherita Cagol. La ritengo una provocazione. Avrei preferito che il prorettore di Trento organizzasse un incontro su quel periodo storico per far riflettere allo stesso tavolo vittime e carnefici».
Che ricordi ha di quel 5 giugno 1975?
«Avevo 13 anni e ricordo tutto. Ogni volta che ci penso sto male. Sono quelle ferite che rimangono aperte, tanto è vero che ho deciso di diventare psicologo per curarmi. Nella mia vita c’è stato un prima e un dopo. Prima ero un ragazzo solare, spensierato e vivace. Dopo è stato un incubo. Un vero lockdown perché ho iniziato a vivere con la scorta, mi portavano a scuola i carabinieri, poi sono andato in collegio per evitare rischi, visto che le telefonate di minacce erano all’ordine del giorno. Ricordo di aver passato sei mesi sotto il tavolo della cucina per la paura, non dormivo la notte. Abbiamo vissuto anni di terrore. Mio padre era terrorizzato dalla possibilità che ci facessero del male. Personalmente ho smesso di aver paura circa 20 anni fa, dopo aver lavorato profondamente su me stesso.
Perché si è trasferito in provincia di Brescia?
«Mi sono innamorato di una donna di Rovato che avevo conosciuto al mare e ho lasciato Acqui Terme. Dopo il matrimonio sono entrato in crisi in quanto non avevo mai davvero rielaborato i temi delle mie paure personali. Ho iniziato a fare un percorso terapeutico, perché dovevo curarmi dal disturbo post traumatico causato da quella giornata e dagli eventi successivi. E così mi sono appassionato alla psicologia».
Torniamo al giorno che cambia la vita a lei e alla sua famiglia. Come avevate fatto a sapere di quanto accaduto?
«Mio padre portava ogni giorno a scuola me e le mie sorelle che facevano il liceo classico. A fine lezione ci veniva sempre a prendere a pranzo e andavamo tutti insieme a mangiare a casa. Quel giorno non venne e mia madre stupita chiamò in caserma. Il telefono era sempre occupato. Alle 13 iniziammo a mangiare, come di rito guardando il telegiornale. Ricordo la faccia di Bruno Vespa che diede la notizia: «Ucciso un carabiniere e feriti altri colleghi nel rapimento dell’imprenditore Vittorio Vallarino Gancia che è stato liberato». Sono rimasto impietrito. I vicini di casa si sono catapultati a casa e a quel punto finalmente è arrivato il generale Dalla Chiesa, che ci ha presi e portati in elicottero all’ospedale di Genova a vedere papà».
Suo padre si salvò per miracolo...
«Per poi morire cinque anni dopo quel conflitto a fuoco con i brigatisti. Furono cinque anni drammatici per lui, carichi di dolore e sofferenze. Ricordo che quando faceva il bagno, sul fondo della vasca rimaneva il piombo che fuoriusciva dalle ferite sulla schiena. Il giorno in cui fu operato, il primario disse che le schegge che non erano riusciti a togliere si sarebbero mosse verso l’interno del corpo nell’arco di poco tempo. E così è stato. Quando è morto aveva 55 anni ed era padre di quattro figli. Mi fa male pensare che mio padre sia stato riconosciuto da un tribunale vittima del terrorismo soltanto nel 2018».
Cosa le raccontò suo padre del conflitto a fuoco con i brigatisti?
«L’Antiterrorismo di Torino in quei giorni riceve una soffiata e dice che Gancia e i suoi rapitori sono nascosti in una cascina della zona di Acqui Terme. Era il giorno della festa dell’Arma. Il tenente Rocca prende il Winchester, mio padre la sua pistola di ordinanza e così anche gli altri. Convinti che fosse una soffiata e nulla più. Quando arrivano alla cascina Spiotta d’Arzello sentono delle voci. Mio padre avrebbe voluto attendere i rinforzi, ma i colleghi gli dicono di bussare alla porta e così fa. A quel punto apre un terrorista, il tenente Rocca controlla la finestra della cascina, mio padre avanza e il brigatista gli tira una bomba a mano Srcm. Lui fa giusto in tempo a dare una spinta a Rocca per allontanarlo e sbilanciandosi la bomba lo colpisce sul braccio e sulla schiena, mentre il collega Rocca viene preso in faccia e perde un occhio. Mio padre lo trascina lontano e lo carica su un’auto che passa e lo fa portare in ospedale. Quando papà torna alla cascina, trova il collega D’Alfonso, che era stato trasferito un mese prima ad Acqui Terme, morto a terra, anche Margherita Cagol è senza vita, colpita al polmone mentre scappa dall’altro carabiniere Barberis, che per paura si era nascosto sotto la macchina».
Chi è per lei Margherita Cagol?
«In quei tempi persone come lei venivano definite "compagni che sbagliavano". Margherita, Maraschi, Moretti, Curcio erano tutti compagni che sbagliavano. Oggi mi piacerebbe sapere se la sinistra italiana su questo aspetto ha cambiato posizione. Lei era una ragazza brillante con un’idea molto passionaria della vita e che ha creduto davvero che si potesse ribaltare la democrazia di un Paese a forza di bombe a mano e colpi di mitra. Questi si chiamano terroristi. Negli anni di piombo a Torino e in tante altre città alle cinque del pomeriggio non c’era più nessuno in giro. Questo era il clima di quei tempi che Margherita Cagol, fondatrice delle Brigate Rosse con Curcio, ha contribuito a creare. Il giorno del giudizio è già passato, i tribunali hanno già deciso e la democrazia ha prevalso, ma non si può liquidare così quel periodo. Non lo trovo giusto perché ci sono persone che ancora oggi portano i danni morali e biologici di quegli eventi. Siamo noi vittime».
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