Maltrattamenti sulla moglie, pm chiede assoluzione perché «fatto culturale»

Il processo si concluderà ad ottobre. E per l’accusa l’imputato dovrà essere assolto. Non è la richiesta a fare rumore, ma sono le parole usate dal pubblico ministero. Messe nero su bianco nelle conclusioni depositate alle parti in vista dell’ultimo atto in aula. Il caso è quello di una donna di 27 anni di origini bangladesi e cittadina italiana, madre di due figlie, sposatasi in patria secondo un matrimonio combinato e che ha denunciato il marito, nel frattempo diventato ex, per maltrattamenti fisici e psicologici. La Procura aveva chiesto l’archiviazione del procedimento, ma il gip ha detto no, ordinando l’imputazione coatta per lo straniero nato e cresciuto in Bangladesh. «Sussistono senz’altro elementi idonei a sostenere efficacemente l’accusa in giudizio nei confronti dell’ex marito» ha stabilito il gip.
A processo
Il pubblico ministero parlando della presunta vittima scrive che «le condotte dell’uomo sono maturate in un contesto culturale che sebbene inizialmente accettato dalla parte offesa si è rivelato per costei intollerabile proprio perché cresciuta in Italia e con la consapevolezza dei diritti che le appartengono e che l’ha condotta ad interrompere il matrimonio. Per conformare la sua esistenza a canoni marcatamente occidentali, rifiutando il modo di vivere imposto dalle tradizioni del popolo bengalese e delle quali invece, l’imputato si è fatto fieramente latore».
Il precedente
Una teoria - quella dei reati culturalmente orientati - che si scontra con una recente sentenza del tribunale di Brescia che condannando un padre islamico violento nei confronti delle figlie femmine scrisse: «I soggetti provenienti da uno Stato estero - scrive il presidente Spanò - devono verificare la liceità dei propri comportamenti e la compatibilità con la legge che regola l’ordinamento italiano. L’unitarietà di quest’ultimo non consente, pur all’interno di una società multietnica quale quella attuale, la parcellizzazione in singole nicchie, impermeabili tra loro e tali da dar vita ad enclavi di impunità».
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