Loggia 2023, il punto sulla sostenibilità sociale

Gli studenti dell'Università Cattolica analizzano le diverse sfide della sostenibilità che definiranno il futuro delle nostre città
Palazzo Loggia -  Foto © www.giornaledibrescia.it
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La sostenibilità ambientale e la sostenibilità economica di qualunque scelta politica e amministrativa non possono non tener conto anche delle ricadute su un terzo orizzonte: quello della sostenibilità sociale. Si tratta di un tema particolarmente complesso, che attraversa molti aspetti della vita concreta delle comunità cittadine. Oltre agli aspetti demografici, abbiamo voluto concentrarci su tre fronti in particolare: le politiche giovanili, i cittadini stranieri e l’integrazione, la sicurezza. Vediamo.

La demografia della città

La città di Brescia sfiora i 200mila abitanti, così distribuiti: 

  • popolazione residente totale 199.346
  • Popolazione residente maschile = 96.183
  • Popolazione residente femminile = 103.163

All’interno della città, così si presentano i diversi quartieri:

  • Brescia nord = 41.398 età media 47,7
  • Brescia centro = 43.386 età media 45
  • Brescia sud = 47.338 età media 44,9
  • Brescia est = 28.110 età media 46,8
  • Brescia ovest = 38.290 età media 46,1 
  • (Fascia d’età più alta è a Casazza = 49,9%)

Quanto ai residenti di origine straniera, questa la situazione:

  • Popolazione totale straniera = 38.921
  • Popolazione straniera Brescia nord = 6.106
  • Popolazione straniera Brescia centro = 9.814
  • Popolazione straniera Brescia sud = 11.165
  • Popolazione straniera Brescia est = 3.688
  • Popolazione straniera Brescia ovest = 7.979

Infine i dati che ci raccontano la consistenza della fascia govanile:

  • Popolazione totale 15-29 (2022) = 29.240
  • Popolazione maschile 15-29 = 15.337 
  • Popolazione femminile 15-29 = 13.903

Le politiche giovanili

Molto si è dibattuto e si dibatte in città sull’attenzione dovuta alle fasce anziane della popolazione residente. Cosa inevitabile e giusta. Meno chiara è la fotografia di quanto chiede la fascia più giovane. Per capirne di più abbiamo voluto intervistare un esperto del settore: Alessandro Augelli, il presidente dell’associazione Il Calabrone.

Alessandro Augelli, associazione Il Calabrone
Alessandro Augelli, associazione Il Calabrone

Il Calabrone è una Cooperativa Sociale, nata a Brescia nel 1981, che da sempre promuove e sostiene il benessere giovanile attraverso progetti e servizi di politiche giovanili. Il presidente dell’associazione ci ha spiegato come i loro servizi siano adatti a tutti i giovani della città: di origine migrante, di origine italiana, giovani che stanno attraversando dei disagi, ma anche senza difficoltà.

«Il lavoro che facciamo - spiega - vuole accompagnare i giovani rispetto al loro orientamento scolastico e lavorativo, alla possibilità di fare scambi con l’estero, fare viaggi europei, partecipare ai programmi Erasmus, alle occasioni culturali, ad esempio, la programmazione dei musei, teatri, concerti ecc.. sia come fruitori che come produttori».

Attraverso i dati da noi raccolti, ci risulta che l’attenzione data ad alcune categorie di persone, come gli anziani, non viene data ai giovani. Lei cosa ne pensa?

Se per attenzione intendiamo le risorse investite dalle amministrazioni pubbliche, in generale nella fascia anziana sono maggiori rispetto a quelle investite per i giovani: bilanci alla mano, difficilmente viene speso per i giovani tanto quanto viene speso per gli anziani. Se invece si intende come fatti di cronaca, tantissimi riguardano i giovani; purtroppo, i giovani vengono spesso associati al tema dei disagi e ciò viene spesso collegato all’emergenza sicurezza, purtroppo viene fatta poca riflessione su come stanno i giovani, che investimenti facciamo per offrirgli opportunità e questa cosa ovviamente ha delle conseguenze.

Spesso e da più parti si sente sostenere che oggi i giovani non vogliono più lavorare. Secondo lei, è solo legato a una scarsa volontà dei ragazzi oppure ci sono anche altre motivazioni?

Io trovo questo giudizio fuorviante e sbagliato. Credo che i giovani vivano una difficoltà su diversi piani molto importanti e questo non c’entra nulla con la non volontà. Uno dei temi principali è il fatto di non lavorare perché la retribuzione che viene proposta non è in linea con le aspettative dei ragazzi. Ho sentito molti esercenti commerciali affermare «I giovani preferiscono il reddito di cittadinanza piuttosto che lavorare». Non entrando in questo dibattito, se la paga oraria è molto bassa e il giovane non accede a quel tipo di lavoro, francamente io non mi sento di imputare la non volontà del giovane di non lavorare.

Altro punto: i giovani sono molto impegnati a costruire delle carriere scolastiche che poi non trovano sbocco nelle opportunità lavorative, ciò significa che a fronte di anni e anni di studio, le proposte che il mercato del lavoro mette a disposizione non sono in linea. Ciò genera una serie di problemi notevoli. Ma la domanda è: il problema è dei ragazzi o del sistema formativo e del mercato del lavoro? Vi è poi un’altra categoria di ragazzi, definiti NEET, non impegnati in percorsi né formativi né di lavoro. Nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a giovani che hanno difficoltà, non a giovani che non hanno la volontà. È chiaro che per questi giovani bisogna attivare percorsi di accompagnamento, supporto e reinserimento in percorsi formativi e lavorativi. Non credo che aiuti colpevolizzarli. Francamente, a me sembra che il mondo adulto che ha generato questa situazione e che poi colpevolizza i giovani sia inaccettabile.

Secondo lei da cosa deriva il fenomeno delle baby gang, sempre più in aumento, e che cosa si può fare in merito?

Premetto che, nella maggior parte dei casi quando si parla di baby gang si tratta semplicemente di gruppi di ragazzi, si parla quindi di delinquenza e non di gang. Ciò che abbiamo riscontrato al riguardo è che questi ragazzi mettono in atto una serie di azioni eclatanti (spesso anche con una rappresentazione mediatica) perché cercano, e trovano, visibilità e riconoscimento, un ritorno di reputazione che trovano utile alla loro immagine. Detto in parole povere, questi ragazzi compiono reati gravi perché piuttosto di non essere nessuno, preferiscono essere considerati pericolosi, delinquenti. Spesso correlato a questo c’è l’uso di sostanze stupefacenti o alcol.

La soluzione più semplice è mettere forze di polizia a monitorare i luoghi presi in considerazione. Ciò è sicuramente utile, il problema è che se ci si limita a questo e si creano altri due problemi: in primis si aumenta la percezione di militarizzazione e pericolo, quindi paradossalmente si alimenta il senso di insicurezza; poi, il problema alla radice non è risolto perché i ragazzi poi si spostano. Io credo che accanto al presidio di sicurezza sia importante offrire altre opportunità, come attività educative, culturali e sportive dedicate ai giovani. Se anche non si riesce a coinvolgerli, ma attiro altre categorie di giovani, comunque si promuove l’uso degli spazi pubblici in maniera positiva, creando un ambiente sicuro e piacevole.

Immigrazione e seconde generazioni

È uno dei temi cardine per quanto riguarda la sostenibilità sociale. A livello locale le politiche in questo ambito riguardano soprattutto un percorso di lotta al degrado urbano per creare strutture che favoriscono integrazione, che evitano di creare quartieri troppo isolati e poveri, e poi ci possono essere iniziative di istruzione e formazione. Per approfondire meglio questa situazione, abbiamo deciso di intervistare Gabriele Fontana, avvocato.

L'avvocato Gabriele Fontana
L'avvocato Gabriele Fontana

Nell’ambito dell’immigrazione si è  occupato soprattutto di richieste di protezione internazionale. All’interno della protezione internazionale si può distinguere tra chi fa la richiesta di asilo politico, ossia protezione sussidiaria, cioè quando una persona in ragione di determinate situazioni, come l’orientamento sessuale o religioso, correrebbe nel suo Paese di origine danno grave alla persona e quindi un trattamento inumano, e protezione speciale che viene concessa a persone che provengono da Paesi con difficoltà, povertà e insicurezza e che hanno dimostrato di aver raggiunto un certo grado di integrazione in Italia, compreso il rispetto della legge, lavoro, apprendimento della lingua; rimandare queste persone in patria sarebbe una violazione del loro diritto alla vita privata e familiare, sancito anche dall’art.8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani.

Quali sono secondo Lei gli interventi che il comune dovrebbe attuare a favore degli immigrati?

Secondo me il problema è più a livello nazionale che comunale. Brescia è una delle province con la più alta percentuale di stranieri e dal mio punto di vista è una città piuttosto organizzata rispetto ad altre italiane. È una città abbastanza ricca, quindi, con più risorse, si potrebbe pensare di favorire l’integrazione e la possibilità di prendere un permesso di soggiorno a chi lavora. Il comune dovrebbe dare attenzione a livello di formazione in modo da non creare zone troppo povere dove chiaramente va a finire chi ha meno risorse patrimoniali; invece, avendo una situazione più ordinata, si avrebbero zone con tanti stranieri e italiani e dove può avvenire più facilmente l’integrazione.

A Brescia questa problematica è meno sentita, ma, a Milano ad esempio, gli affitti sono molto elevati, conseguentemente se una persona non ha elevate disponibilità economiche finirà più o meno nella stessa area di altri in situazioni simili. Questo è un problema all’integrazione perché se le persone si relazionano solo tra di loro, chiaramente conosceranno di meno la cultura locale, impareranno con più difficoltà la lingua e il processo di integrazione sarà molto più lungo.

Attraverso ricerche abbiamo scoperto che nel 2020 Brescia ha aderito alla proposta dell’Immigrazione e delle Politiche di integrazioni del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali per la presentazione di progetti per l’inclusione di cittadini stranieri. Il progetto è stato intitolato “Brescia la mia nuova casa: percorsi di inclusione e cittadinanza attiva della popolazione immigrata” e sono stati scelti degli obiettivi principali, come, per esempio, sensibilizzare la cittadinanza ai temi riguardanti la convivenza multi e inter-culturale; promuovere l’integrazione socio-lavorativa di cittadini/e di Paesi Terzi ad alto rischio di vulnerabilità sociale; offrire incentivi all’affitto a inquilini di origine immigrata da parte dei proprietari. Secondo Lei questi obiettivi sono stati più o meno raggiunti in questi 3 anni?

Secondo me non troppo, perché le aree della città più degradate sono rimaste più o meno le stesse. Un tentativo di rivalutare la zona di via Milano vi è stato ma, ad oggi, tra Brescia Ovest e la zona della Stazione, non sono stati attuati dei cambiamenti rilevanti.

Sappiamo che le procedure burocratiche per ottenere un documento italiano per stranieri sono molto lunghe, secondo lei c’è qualcosa che il Comune può attuare in questo contesto? 

È abbastanza difficile, nel senso che chiaramente dipende dal numero di risorse. A Brescia c’è tanta attesa perché le richieste sono elevate. Realisticamente parlando è difficile velocizzare il tutto, bisognerebbe avere molte più risorse. Molti fanno la richiesta di asilo per poter iniziare a lavorare, e anche se la Commissione Territoriale, ovvero l’organo che in primo grado dovrebbe valutare se accettare e riconoscere o meno lo status di rifugiato, dovesse rigettare la proposta, c’è la possibilità di fare ricorso. Successivamente, si potrebbe chiedere in primo luogo la protezione umanitaria (la quale dà più valore all’inserimento della persona) e, in secondo luogo, la protezione speciale. Più il tempo passa, più l’interessato avrà avuto tempo di inserirsi, trovare lavoro e imparare la lingua. La lunghezza è comunque una questione operativa: ci sono tante domande e non troppe risorse. 

La sicurezza

Il tema della sicurezza risulta senza dubbio centrale per valutare la vivibilità di una città e di un territorio. Si tratta di un nodo delicato e spesso divisivo. Va affrontato con la consapevolezza che i freddi dati statistici, pur fondamentali, da soli non bastano per spiegarne le dinamiche, dato il peso che su questo fronte gioca inevitabilmente la percezione personale e psicologica. Su questo tema abbiamo voluto sentire il viceprefetto Massimo De Stefano. Il quale ci ha spiegato che sistema di sicurezza è un sistema integrato, nel senso che ne fanno parte più componenti che si integrano e collaborano tra di loro, tra cui anche l’amministrazione comunale e il sindaco.

Infatti, il sindaco del capoluogo, è un componente fisso del Comitato Provinciale Ordine e Sicurezza Pubblica che è presieduto dal Prefetto, dove, in linea di massima, insieme al questore , i due comandanti provinciali dei carabinieri e della guardia di finanza, e con le varie persone in base all’argomento trattato, si definiscono i provvedimenti di sicurezza. 

Per quanto riguarda l’andamento statistico dei reati sul territorio bresciano le rapine risultano in diminuzione: da 254 a 224. I furti invece sono un reato numericamente più consistente: quelli in abitazione erano 499 nel 2021, 508 nel 2022. «In uno degli ultimi comitati - spiega - abbiamo trattato dei furti nelle farmacie, in quanto l’Associazione dei Farmacisti aveva segnalato questa problematica: non per sottrarre farmaci ma per sottrarre il fondo cassa. Ci saranno dei servizi mirati».

Oltre ai reati contro il patrimonio - furti e rapine - di cui abbiamo appena visto, quali altri reati - in base ai dati in vostro possesso - rappresentano un problema statisticamente significativo per la città? 

Ultimamente si è parlato di sicurezza anche per quanto riguarda gli autotrasportatori, quindi di alcuni episodi che sono successi in metropolitana o sugli autobus. Però, siamo nella seconda città della Lombardia per estensione e per popolazione, quindi alcuni fenomeni non dico che siano fisiologici però succedono. È impensabile che piccoli episodi di questo genere non succedano. Ovviamente se ciò accade con maggior frequenza in determinate stazioni bisogna prendere dei provvedimenti mirati. Il trasporto pubblico locale è sempre controllato. Non ci sono degli episodi che destano allarme.

In base ai dati che abbiamo raccolto, abbiamo visto che il fenomeno delle baby gang preoccupa di più rispetto ad anni fa. Secondo lei da cosa deriva questo fenomeno e che cosa si sta facendo in merito?

Il motivo per cui si creano le baby gang è di natura sociologica, sicuramente l’aggregazione giovanile è un mondo particolarmente delicato ma sinceramente non so quale se sia individuabile un solo elemento scatenante del fenomeno. Certo, là dove avviene, la cosa affonda le radici in un tessuto sociale e psicologico che chiede risposte. Che va affrontato e che viene affrontato. Ad esempio, nelle comunità e nelle scuole abbiamo promosso iniziative e corsi sul cyberbullismo, ma chiaramente oltre a concentrarsi su chi è vittima bisogna chiedersi anche chi è il cyberbullo. Dobbiamo chiederci perché si comporta così e da dove arriva questo comportamento. Anche il web può essere un’arma micidiale. C’è la vittima da tutelare e aiutare, ma ci sono questi ragazzi problematici che arrivano a fare determinate cose e bisogna capire cosa li spinge a comportarsi così. 

Brescia statisticamente si può definire sicura. Su questo fronte anche il Comune è chiamato a fare la sua parte. Su questo fronte che tipo di determinazione ha riscontrato?

Parlo sulla base del mio anno di permanenza a Brescia e la sensazione è che con il Comune - sia in questo momento che sicuramente per il in futuro - l’attenzione alla sicurezza ci sia. La sicurezza per la vita di una comunità è fondamentale, e questo è un tema che si pone sia per una amministrazione di destra o di sinistra, la base è quella. Con la sicurezza c’è serenità. Sul nostro territorio, tra l’altro, c’è una grande presenza di persone che si integrano e che provengono da altri paesi e anche su quello vedo un territorio inclusivo, con un atteggiamento di aggregazione.

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