«Io, da Herat a Brescia per una nuova vita lontano dai talebani»

La fuga dal regime di Kabul e l’accoglienza bresciana: parla uno dei collaboratori salvati dall’Esercito italiano
Abdullah Shirzad e le due figlie di otto e cinque anni - © www.giornaledibrescia.it
Abdullah Shirzad e le due figlie di otto e cinque anni - © www.giornaledibrescia.it
AA

Abdullah Shirzad ha 37 anni, una moglie e tre bambini. Da poco più di una settimana vivono a Brescia, dopo aver trascorso la quarantena a Bolzano. Fanno parte dei profughi afghani portati in salvo perché collaboratoridel governo italiano in Afghanistan «Almeno lassù non faceva caldo». Sorride. Riesce ancora a sorridere, dopo aver abbandonato in fretta e furia il suo Paese per non rischiare la vita.

«Brescia? No, la città non la conoscevo proprio, ma so tutto della sua squadra di calcio, fin da quando era in serie A con Roberto Baggio e mi piacerebbe andare allo stadio a vedere una partita del Brescia». Un momento di leggerezza nella lunga intervista in cui sono prevalse l’amarezza, la disillusione e il dolore. «Penso che il mio popolo sia scioccato, non rassegnato: non sono gli afghani ad aver rinunciato a combattere contro l’avanzata dei talebani, quanto il presidente Ghani che ci ha traditi». Shirzad è di Herat, la città dell’Afghanistan occidentale sede della base italiana nel Paese asiatico. Ora vive con la famiglia in un appartamento del Centro di accoglienza straordinaria gestito dalla cooperativa «La Rete» e rientra nel primissimo nucleo del centinaio totale di profughi afghani che il ministero ha destinato a Brescia.

In Italia è arrivato lo scorso 20 agosto grazie al ponte aereo con voli dell’Aeronautica organizzato dal nostro governo per evacuare i civili afghani che in vent’anni hanno collaborato con la missione diplomatica e militare in Afghanistan e che, nel loro Paese, avrebbero rischiato la vita. «Ogni giorno telefono al mio fratello minore, l’unico rimasto ad Herat dopo che io sono partito per l’Italia ed un altro fratello per gli Stati Uniti. E nostra madre si è rifugiata a Kabul a casa degli zii - racconta -. Anche lui lavorava per una compagnia internazionale e adesso ho paura perché i talebani hanno iniziato a controllare casa per casa, in modo sistematico. Quando arriveranno alla nostra, di casa, scopriranno che siamo partiti e non so cosa potrà accadere. Già stanno prelevando i più giovani». Poi, ci mostra la foto di un amico giovane che lunedì è stato ucciso dai talebani perché manifestava in piazza insieme alle donne di Herat.

I talebani hanno iniziato i controlli casa per casa
I talebani hanno iniziato i controlli casa per casa

Abdullah Shirzad, una laurea in «business administration» conseguita nel 2014 quando già lavorava da sette anni per l’azienda internazionale di logistica «Es-Ko», già italiana ed ora con sede nel Principato di Monaco, ad Herat gestiva l’approvigionamento del nostro contingente. «Nella mia azienda lavoravano africani, indiani, europei. Persone provenienti da tutto il mondo, con culture diverse. Di grande interesse». Poi la storia, contravvenendo ad una delle sue leggi, si è ripetuta. Dopo vent’anni, tutto il Paese è di nuovo in mano ai talebani.

Shirzad li conosce bene perché con loro al potere ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza. La guerra ha fatto da corollario alla sua giovinezza, con la concretezza degli scontri violenti e delle esecuzioni. «Non ho mai visto persone ammazzate con i miei occhi, ma ne ho viste molte scomparse all’improvviso, senza lasciare traccia. Ancora sento il rimbombo degli spari quando, nel 2010, in cinque hanno effettuato un attacco kamikaze contro la nostra azienda, uccidendo due guardie della sicurezza. Li conosco, i talebani. Così, all’inizio di agosto, quando hanno circondato la città, mi sono rinchiuso in casa con la mia famiglia. Pochi giorni, poi Herat è caduta. Subito dopo, anche Kabul».

Abdullah ancora non si capacita: «Ad Herat c’erano dai 7 agli ottomila militari dell’esercito afghano pronti a combattere, ma nessuno ha dato loro l’ordine di farlo. Anzi: alcuni amici militari mi hanno detto che l’ordine è stato di deporre le armi, togliersi la divisa e rientrare nei loro luoghi di origine. Tant’é che quando noi civili dovevamo fuggire in aeroporto, non riuscivamo a trovare autobus perché tutti erano stati affittati dagli ormai ex militari per tornare a casa. È caduta così Herat: ottomila giovani in fuga senza combattere in una notte hanno consegnato le chiavi della città a duecento talebani festanti, senza spargimento di sangue. Un tradimento. Un terribile tradimento».

La città è caduta di giovedì, il 12 agosto. Abdullah e la sua famiglia hanno abbandonato la loro casa e la loro terra due giorni dopo, di sabato. «Con noi due borse con qualche vestito. All’aeroporto ci hanno detto di lasciarle, che le avrebbero spedite in Italia...Beh, almeno un amico che era partito prima di me ci aveva avvisato, così abbiamo tolto dalle borse tutti i documenti». La famiglia si è imbarcata, direzione ovest, una settimana dopo aver lasciato Herat. Di quei giorni convulsi Abdullah non ricorda molto. Forse non vuole ricordare. Una cosa, però, non dimentica ed è il pianto a dirotto della sua bimba di otto anni. «Piangeva perché i talebani nella calca la spingevano premendole il calcio del fucile nella schiena. Lei non li aveva mai visti ed ha avuto una paura incontrollabile».

È stata una fuga, la loro e quella di migliaia di altri profughi evacuati dall’Afghanistan. «Qualche mese fa gli italiani con i quali collaboravo mi avevano detto che avrei dovuto iniziare a preparare i documenti perché sarebbe stato più opportuno lasciare il Paese dopo la partenza delle forze della Nato - continua -. Poi la situazione è degenerata e siamo stati invitati a prendere i documenti identificativi ed andare subito a Kabul». Scuote la testa e dispera di poter tornare nel suo Paese. Dispera che la situazione possa migliorare: «Quello dei talebani non è islam e le loro regole sono tribali. Gli occidentali non sono stati perfetti, non lo nego, ma per noi adesso la vita non può che essere in Occidente».

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

Iscriviti al canale WhatsApp del GdB e resta aggiornato