Italia e Estero

«Penso a quelle bimbe che ho conosciuto in Afghanistan»

La testimonianza del giornalista bresciano Davide Cordua, tra il 2010 e il 2012 inviato al seguito della missione militare italiana
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PAURA PER KABUL
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Ruina Karini aveva 12 anni quando nell’agosto del 2010 la incontrai insieme al nonno all’ambulatorio medico dell’Esercito italiano a Herat, in Afghanistan. Andava a scuola già da sei anni, le piaceva studiare l’inglese e sognava di fare il medico. Oggi Ruina dovrebbe avere 23 anni e dopo la conquista da parte dei talebani mi domando quale futuro avrà lei e tutte le altre afghane che ho incontrato a Herat e poi nel 2012 a Shindad.

Penso a tutte quelle bambine che andavano nelle scuole che l’esercito italiano ha costruito in Afghanistan durante la missione con la Nato. Una di queste era in una zona rurale della provincia di Herat. Ci impiegammo un paio d’ore per percorrere la distanza che ci separava dal villaggio. Non era molto lontano, era come andare da Brescia a Salò, ma le strade erano a volte impraticabili e mai asfaltate. Dovevamo muoverci in colonna per prevenire possibili minacce di attentati e quindi spostarci con cautela. Quel giorno si inaugurava un nuovo istituto scolastico, i bambini cantavano, l’Imam benedì il nuovo edificio, ma la cosa che mi è rimasta più impressa nella mente era la gioia dei bambini quando a ognuno di loro venne regalata una bottiglietta d’acqua.

Una volta che si arriva nei villaggi e nella zona rurale si capisce immediatamente che la povertà vista a Herat non è nulla in confronto a quella che si vede in queste aree. Era come essere catapultati nel medioevo. Non esisteva acqua corrente, le abitazioni in terracotta erano praticamente spoglie. Non c’erano telefoni, tv o radio e mancava persino il gas e l’elettricità. Strade in terra battuta, niente auto o camion di proprietà, solo bici, asini e al massimo si vedeva circolare qualche motorino. La gente si lavava ancora nei fiumi dove prendeva l’acqua da bere e faceva anche il bucato. Ogni comunità rurale viveva nel completo isolamento all’oscuro di quello che accadeva nel mondo.

Forse l’esempio più lampante è Bala Morghab, un piccolissimo villaggio di tremila anime circondato da montagne che si trova al confine con il Turkmenistan. Qui incontrai un bambino che avrà avuto meno di dieci anni. Era scalzo, sporco e vestito con una tunica ormai del colore della terra afghana. Quando alzai la mia telecamera per riprenderlo lui si spaventò, alzò le mani, indietreggiò e cade per poi scappare via. Pensava fosse un’arma.

Anche quando tornai nel 2012 fu facile capire che ricostruire un Paese da zero sarebbe stata un’impresa difficile per chiunque. Le cose, infatti, non erano cambiate molto. L’Afghanistan continuava a rimanere diviso non solo perché privo di collegamenti e infrastrutture, chi era povero era sempre più povero, ma anche per la scarsa collaborazione tra le varie etnie in un Paese che ha visto sempre regnare un sistema feudale e sostanzialmente tribale. Ora il timore è che tutto quello che è stato fatto in questi venti anni per dare un futuro a quei bambini e a quelle bambine finisca in un cumulo di cenere.

 

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia

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