Infermieri in fuga dalle Rsa, tanti puntano all'ospedale pubblico

Dai tre ai quattro infermieri in Rsa su dieci hanno scelto, mediamente, di tentare la carta dell’ospedale pubblico.
Quello per acuti, nel quale non erano ancora entrati e che, per loro, durante la pandemia ha aperto le porte. Gli operatori sociosanitari e gli ausiliari sono rimasti più fedeli al loro posto di lavoro con gli anziani ospiti delle Case di riposo, ma il ricambio generazionale per questa categoria è sempre più difficile.
Alberto Festa, presidente Confcooperative Federsolidarietà Brescia: «Per queste figure sono iniziati i corsi di formazione, ma è arduo trovare qualcuno che abbia voglia di iscriversi, e non è solo una questione economica anche se noi non possiamo rincorrere a livello contrattuale un mercato che è altro rispetto alle nostre finalità. Tenuto conto che nel nostro mondo il costo del personale incide per il 65-70%». Ecco, se si potesse fissare con una parola lo stato d’animo di molti lavoratori della sanità in questi due anni di furore, penseremmo a «straniamento». Estraniarsi, per sopravvivere al dolore ripetuto, incessante, definitivo, dei molti pazienti accuditi e curati. Per riprendere una normalità di vita dopo l’abnormità di quello che si è vissuto.
Le ragioni
«Anche il drenaggio del personale ha messo a dura prova le Rsa e se i servizi residenziali, pur a fatica, sono stati garantiti, abbiamo assistito ad una riduzione complessiva di quelli domiciliari e di quelli semiresidenziali - spiega Chiara Benini, coordinatrice Associazione Upia, Unione provinciale istituti per anziani -. Anche in questo caso, come in quello del costo delle bollette, la situazione è variegata e strettamente legata alla situazione territoriale: ovvio che un infermiere che lavora in una Rsa in Alta Valcamonica, ad esempio, difficilmente ha interesse a trasferirsi al Civile di Brescia. Quelli di Brescia, invece, sì.
spostarsi nel pubblico sono stati soprattutto giovani maschi, mentre le donne più anziane sono rimaste a lavorare nelle Rsa. Poi c’è chi ha vissuto male gli impegni di cura della pandemia ed ha preferito cambiare mestiere pur di non farsi carico di una serie di incombenze, tra cui la novità tutta legata alla pandemia dei tamponi. Quando si fanno i colloqui di lavoro ci si rende conto che domanda ed offerta non seguono un quadro univoco, ma sono legate ad un sentire personale, strettamente individuale. In ogni caso, con fatica, siamo riusciti a rimpiazzare quasi la metà di coloro che si sono dimessi. Alcuni sono stati stabilizzati, altri sono tornati perché stanchi di lavorare in ospedale. Questo malgrado i nostri contratti siano penalizzanti, con una media che va dai 350 ai 550 euro mensili in meno nella busta paga di un nostro infermiere rispetto ad un suo collega in ospedale».
Nei prossimi due anni
Festa: «Molti sono tornati anche perché il livello di stress in una realtà in cui si curano i malati acuti è ancora più elevato. Al di là di questa circolarità, proprio pochi giorni fa un Consorzio sanitario e sociosanitario regionale nell’ambito di Concooperative ha annunciato che dovrà assumere dagli 800 ai mille infermieri nei prossimi due anni per garantire i servizi. In Italia non ce ne sono a sufficienza e, per questo, sta siglando contratti con professionisti in Bulgaria».
Nei Paesi occidentali, medici ed infermieri bulgari possono guadagnare fino a dieci volte più che in patria ma, fuggendo, lasciano sguarnito un sistema sanitario che già fatica a crescere. Tanto che, per rallentare la fuga dei cervelli - in Italia ne sappiamo qualcosa, a dimostrazione che per ogni nord del mondo c’è sempre qualcuno che vive più a sud - l’Organizzazione mondiale della Sanità ha emesso un codice di condotta in cui si raccomanda ai Paesi di non assumere personale medico proveniente da regioni con scarse infrastrutture sanitarie. Solo una raccomandazione, non un obbligo.
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