Inchiesta Leonessa, Marchese: «Io non sono un mafioso»

Per l’accusa è «promotore, organizzatore e direttore della associazione di tipo mafioso caratterizzata da autonomia programmatica, operativa e decisionale rispetto ad altre cosche mafiose di Gela». Per un collaboratore di giustizia sentito durante il processo: «Era un appartenente della cosca Rinzivillo e loro referente al nord. Poi è passato con gli Antonuccio e se te lo presenta uno dello Stidda vuol dire che quella persona lavora per la Stidda. Me lo hanno presentato come fratello che in ambito mafioso vuol dire che è un appartenente».
Due ore e mezza in aula. Ma lui, Rosario Marchese, consulente tributario, siciliano di Caltagirone, 35 anni, rigetta l’accusa di essere un mafioso. «Ammetto le indebite compensazioni e 75 capi di incolpazione contestati, ma sull’imputazione di associazione mafiosa mi dichiaro estraneo. Non ho mai aderito e fatto parte di associazioni a delinquere di stampo mafioso e nemmeno nella Stidda. I miei racconti agli inquirenti siciliani sul clan Renzivillo? Ho saputo solo da voci di città come era strutturata la cosca, ma non ho mai fatto parte di clan della mafia» ha detto ieri in aula l’uomo al centro del processo Leonessa, la maxi inchiesta con cento e più indagati che ha fatto emergere presunte infiltrazioni mafiose nel tessuto economico bresciano.
«Non sono un mafioso». Marchese, detenuto ad Opera, si è sottoposto all’esame davanti al collegio presieduto da Maria Chiara Minazzato. «Non ho mai subito condanne per associazioni mafiose. Sono stato sorvegliato speciale dal 2014 al 2016 per associazione a delinquere semplice. Ero stato arrestato nel 2012 per indebite compensazioni e sono stato assolto» ha spiegato.Dimenticandosi di aver incassato pochi mesi fa una condanna per oltre sei anni a Gela per associazione a delinquere di stampo mafioso. A Brescia si era trasferito nel 2016. Aprendo un bar in città e diverse società, acquistando una villa a Lonato del Garda e uffici all’interno del palazzo di lusso Skyline18. «Operavo da solo. Avevo procacciatori di clienti che volevano indebite compensazioni e con gli F24 facevo le operazioni illecite con crediti assolutamente inventati. I procacciatori avevano una percentuale dell’importo compensato che pagavo attraverso bonifico bancario o ricariche postepay» ha ricostruito in due ore e mezza di deposizione.
Sola una parte, perché per il resto l’udienza è stata aggiornata al 19 novembre. Per il pm Paolo Savio, con Marchese agivano Roberto Raniolo e Angelo Fiorisi, entrambi di Gela ed entrambi con anni di carcere alle spalle. «Con Fiorisi ho avuto rapporti, ma non di criminalità organizzata. Mi faceva da procacciatore. Raniolo mi ha fatto da procacciatore per una pratica. E io non ho mai fatto compensazioni illecite per agevolare associazioni mafiose» ha fatto mettere a verbale Marchese, al quale nell’ambito di un’altra inchiesta della Dda di Caltanisetta è stato confiscato un tesoretto da 15 milioni di euro.
Per l’accusa i soldi delle indebite compensazioni effettuate dal ragioniere siciliano venivano inviati a Gela per l’acquisto di droga. «Non nego di essere un consumatore di cocaina, ma il denaro lo mandavo su un conto intestato a Giuseppe Nastasi - anche lui imputato - e poi me lo riprendevo». Immediato l’intervento del pm Savio: «Salvatore Antonuccio ha però detto che solo una minima parte veniva restituita a lei. La maggior parte dei soldi veniva impiegata dalla Stidda per gestire il traffico di droga». E Marchese ribatte con un «non ricordo». Il primo di una lunga serie.
Come quando gli viene menzionato un incontro citato da un pentito, sentito sempre ieri durante l’udienza che ha pure ricordato che «dalla struttura mafiosa si può uscire solo in due modi: o da morto o se collabori». «Può essere dell’incontro di cui dice, ma non ricordo. Per me poi i termini collaboratore e infame sono sinonimi». Poi aggiunge: «Gela, città portatrice di guai, è piccola anche se sembra grande. Bruno Di Giacomo? Lo sentivo al telefono ma non avevo ricollegato che fosse quel Di Giacomo, a capo della Stidda. Sapevo poi che Antenuccio aveva piccoli problemi con la giustizia, ma non che fosse legato alla Stidda. Gli feci fare dei lavori a casa quando lui era stato scarcerato e io ero sorvegliato speciale. Gli dovevo dei soldi e l’ho invitato al nord per quello. È arrivato con delle pistole per me? Non sapevo».
Marchese ha negato anche di essere stato costretto ad andare via dalla Sicilia perché ritenuto un collaboratore di giustizia. «Nel 2016 dopo la sorveglianza speciale mi trasferisco al nord perché avevano diagnosticato sei mesi di vita a mia moglie che era in cura al San Raffaele. Solo per questo. Poi ci trasferiamo sul Garda e riprendo a fare indebite compensazioni. Che sono il mio pane dal 2009».
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