In ristoranti e bar manca il 30% del personale: Brescia cerca soluzioni

La pandemia ci ha fatto capire il valore del tempo. Consapevole di ciò e intenzionato a disincentivare i giovani ad abbandonare un settore, come quello della ristorazione, già in crisi di personale il Mon Petit Bistrot di Brescia ha ridotto l’orario di apertura: tutti a casa (o a spasso) dalle 21.30 (o prima, in base ai turni).
«Fino a due anni fa ricevevo curricula in continuazione - racconta il titolare Marco Dodesini -, ora non più: mi tengo stretto i miei dipendenti proponendo loro orari più facilmente conciliabili con famiglia e tempo libero. Il nostro è diventato un settore malvisto, dobbiamo lanciare messaggi positivi, far capire ai giovani che ci sono aziende sane che non sfruttano il personale».
Busta paga bassa
«Perché non ci sediamo tutti a un tavolo e negoziamo un contratto integrativo provinciale del settore del turismo?», chiede Alberto Pluda, segretario della Cisl bresciana, rivolgendosi a Cgil, Uil, Confesercenti e Confcommercio: «Se ne parla da tempo, ma poi tutti fanno orecchia da mercante. Invece è il momento di fare qualcosa per rendere più appetibili i salari, le condizioni di lavoro e di welfare. Anche perché la nostra è una provincia turistica che non può rinunciare al personale qualificato».
A suo avviso si è arrivati a questo punto, con il 30% in meno di forza lavoro (questa la stima dell’Arthob), per diversi motivi. Li elenca: «Istituzioni latitanti e centri per l’impiego che raggiungono modestissimi risultati; orari estenuanti e salari bassi; contratti part-time sulla carta e a tempo pieno nella realtà; reddito di cittadinanza che, unito a un lavoretto in nero, frutta un mensile più alto; stagionalità che disincentiva la scelta... Così, insomma, non si può continuare». Il problema, infatti, incide molto sul settore, soprattutto adesso che la stagione turistica è iniziata.Weekend «sacro»
«Dal lockdown in poi è un disastro - rende noto Francesco Giordano, presidente dell’Arthob e titolare della Serenella di Brescia -: il lavoro è duro, le ore tante e il weekend per molti è sacro: pochi rimangono nel settore». A suo avviso per rendere questi lavori più interessanti agli occhi dei giovani servirebbe un intervento dall’alto: «Chiediamo meno tasse per far crescere, a parità di lordo, lo stipendio netto e le soddisfazioni. Come Arthob, poi, entreremo nelle scuole a motivare i ragazzi. Vogliamo inoltre formare un bacino di lavoratori a disposizione dei nostri soci».
Il collega Alessandro Lanzani, titolare del Laboratorio Lanzani, aggiunge che «noi datori di lavoro dobbiamo mettere i dipendenti nelle condizioni di non andarsene: i turni vanno gestiti in modo sostenibile, le esigenze personali, nel limite del possibile, vanno assecondate: cuochi, baristi e camerieri devono avere un tenore di vita soddisfacente e lavorare col sorriso».
Ciò, però, non sempre accade. Lo sottolinea Luca Di Natale della Cgil Filcams Brescia: «Il contratto nazionale prevede 40 ore di lavoro la settimana, almeno un riposo e una maggiorazione del 10% per domeniche e festivi. Per legge, poi, tra un turno e l’altro dovrebbero trascorrere 11 ore. Purtroppo, però, in molti casi la realtà è diversa: si cercano stagisti ai quali dare rimborsi spese da 400-500 euro, vengono sottoscritti contratti part-time e le ore in più vengono pagate fuori busta oppure contratti a chiamata per impieghi che, in verità, sono full-time. Il risultato è che si lavora per 50 o più ore con contratti da 20».
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Secondo Di Natale un primo passo per migliorare le cose sarebbe «rispettare il contratto nazionale. Che per i baristi comporta uno stipendio mensile da 1.371 euro lordi, che diventano 1.300 per il personale di sala».
Il sindacalista chiede controlli e un cambio di mentalità: «Siamo assistendo a un impoverimento delle professionalità: chiunque si improvvisa cuoco o cameriere. Le realtà virtuose, ovviamente, non mancano, ma ci sono anche paghe da fame e orari improponibili. Ecco perché, di conseguenza, alcuni preferiscono il reddito di cittadinanza».
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