Donne che lottano: le storie di Erica Patti e Gigliola Bono

Le due bresciane hanno vissuto la morte violenta dei loro figli, oggi combattono contro la violenza e per i diritti delle vittime
"COL SENNO DI POI"
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Erica Patti e Gigliola Bono hanno due storie diverse e un atroce dolore in comune. I loro figli sono stati uccisi. Per questo, oggi, le due bresciane combattono una battaglia. Per loro stesse, ma soprattutto perché altre donne non debbano più subire la sofferenza, devastante e indescrivibile, che ha stravolto le loro vite. Nella Giornata internazionale dei diritti della donna, che dal 1977 si celebra l’8 marzo di ogni anno, ricostruiamo le loro vicende e raccontiamo in che modo hanno cercato di trasformare lo strazio in sostegno, determinazione e aiuto.

La tragedia di Ono San Pietro

La mattina del 16 luglio 2013, in un appartamento di via Sacadur a Ono San Pietro in Valcamonica, il 40enne Pasquale Iacovone uccide i suoi due figli, Andrea e Davide, che hanno 13 e 9 anni. Prima li soffoca, forse con un cuscino, e poi li cosparge di benzina e appicca il fuoco. I soccorritori li trovano carbonizzati, sdraiati uno accanto all’altro, nel lettone del padre. Lui stesso riporta gravissime ustioni e per mesi resta ricoverato in ospedale a Padova, lottando tra la vita e la morte.

  • Tragedia di Ono San Pietro: la mattina del ritrovamento e i funerali
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Sopravvissuto, è stato condannato all’ergastolo (sentenza confermata in Cassazione a aprile 2017). I giudici l'hanno definita «una vendetta disumana» nei confronti della ex moglie, Erica Patti, con cui si era sposato nel 2000 per poi separarsi nel 2009: un «risentimento ossessivo perché la donna lo aveva lasciato e aveva iniziato una nuova relazione». Il suo intento era vederla soffrire. Oggi Iacovone è detenuto nel carcere di Opera a Milano.

La battaglia di Erica Patti

Erica Patti alla consegna del Premio Bulloni 2015, tributo al suo coraggio solidale - Foto Pierre Putelli/Neg © www.giornaledibrescia.it
Erica Patti alla consegna del Premio Bulloni 2015, tributo al suo coraggio solidale - Foto Pierre Putelli/Neg © www.giornaledibrescia.it

La mamma di Andrea e Davide aveva denunciato 10 volte le minacce dell’ex marito. «Ho chiesto aiuto a tutte le istituzioni che avrebbero dovuto proteggerci». Non è stato così. Erica Patti non è stata creduta, eppure alcuni sms dell’ex marito non lasciano spazio a dubbi. Il 23 giugno 2012, ad esempio, le scriveva: «Ammazzo te e tua mamma, l’unico punto per farti del male è fare del male ai tuoi figli. Non li vedrai mai più. Li ammazzo».

Ospite della trasmissione Messi a fuoco di Teletutto, racconta: «Non sono stata creduta. Ho sempre pensato che li avrebbe uccisi, quando mi hanno chiamato quel giorno avevo già capito cos’era successo». Come venivano accolte le denunce? «Ogni volta venivo trattata come la moglie rompiscatole, pensavano fossi io a volermi vendicare di lui. I carabinieri non sapevano nemmeno cosa volesse dire "stalking"». Iacovone non accettava la fine del matrimonio, né che Erica si stesse ricostruendo un’altra vita con un nuovo compagno, che ancora oggi le è accanto e da cui ha avuto un bambino, Riccardo. «Voleva punirmi».

Come è riuscita a sopravvivere a un dolore così? «Dopo anni difficilissimi che non si possono definire "vita", ho reagito per le persone che avevo vicino. La spinta me l’ha data la consapevolezza di poter aiutare altre donne, per questo ho fondato l’associazione Dieci». Dieci è nata nel 2015 e ha l’obiettivo di sostenere le famiglie in difficoltà, in particolare i bambini e le donne vittime di ogni forma di violenza, «promuovendo un vero e proprio cambiamento culturale». L’associazione organizza incontri per sensibilizzare l’opinione pubblica, coordina spazi di ascolto, fa formazione nelle scuole e crea raccolte fondi. Per sostenere Dieci o entrare a far parte del progetto, i contatti sono 331.2978050, info@dieciaction.it e www.dieciaction.it.

Il libro

Erica Patti ha scritto un libro, disponibile in libreria e online da marzo 2022: «Col senno di poi», di cui è coautrice la giornalista di Teletutto Laura Bergami, che prende il titolo da una frase che un’assistente sociale disse dopo la tragedia. «Ho ricostruito la mia storia, con difficoltà, perché voglio arrivare a tutte le donne che subiscono violenza. È evidente che nel mio caso qualcosa non ha funzionato, ma bisogna denunciare. Rivolgersi alle forze dell’ordine è l’unica strada: queste donne devono pur potersi fidare dello Stato, hanno diritto di fidarsi di qualcuno».

La tragedia di Manerbio

Monia del Pero è stata uccisa il 13 dicembre 1989, nella notte di Santa Lucia, dal suo ex fidanzato, che l’ha prima strangolata e poi gettata in un fosso. Il corpo della ragazza, che aveva 19 anni, è stato trovato solo tre giorni dopo, chiuso in un sacco nero e abbandonato in una conduttura di scarico delle acque del fiume Mella a Manerbio. Alle ricerche aveva partecipato anche l’assassino, proclamandosi innocente, mentre i sospetti dei genitori di Monia sono ricaduti su di lui fin dal principio.

Il funerale di Monia Del Pero - Foto Archivio Eden © www.giornaledibrescia.it
Il funerale di Monia Del Pero - Foto Archivio Eden © www.giornaledibrescia.it

Messo sotto torchio, confessò di averla ammazzata perché accecato dalla rabbia. «Il giorno del funerale era già agli arresti domiciliari» ricorda con amarezza Gigliola Bono, la madre, ospite di Messi a fuoco su Teletutto. Anche lui 19enne, l’assassino fu condannato a 10 anni e 8 mesi per omicidio volontario, più un anno e 8 mesi per occultamento di cadavere e tre anni di libertà vigilata. Ne ha scontati 5 in carcere e due ai domiciliari, oggi si è rifatto una vita all’estero e ha una famiglia.

La battaglia di Gigliola Bono

Gigliola Bono, la mamma di Monia Del Pero - Foto © www.giornaledibrescia.it
Gigliola Bono, la mamma di Monia Del Pero - Foto © www.giornaledibrescia.it

Da 30 anni la mamma di Monia lotta perché le vittime di reati violenti (femminicidi, ma non solo) siano equiparate a quelle di mafia, terrorismo e criminalità organizzata e venga loro riconosciuto un risarcimento. «Non pensavo, dopo così tanto tempo, di essere ancora qui a battagliare nel nome di mia figlia. Ho quasi 70 anni, non so quanto mi resta, ma vorrei avere un’unica soddisfazione: vedere la fine». E non solo per Monia, ma per tutte le persone in Italia che stanno subendo la stessa ingiustizia. «Io non voglio l’elemosina dello Stato, voglio che sia riconosciuto un diritto».

Tribunale dopo tribunale, Gigliola Bono punta a mettere fine a quella che lei ritiene essere una discriminazione: «Lo Stato non si può permettere di trattare vittime uguali in modo diverso, perché è anticostituzionale: lo dice l’articolo 3». Il percorso della donna è stato lungo e travagliato, e non è ancora concluso. Racconta: «La mia battaglia è iniziata in Prefettura, poi Tribunale ordinario, poi Tar di Brescia, poi Consiglio di Stato a Roma. Ora vedremo cosa accadrà e se anche le vittime di reati violenti avranno accesso al Fondo per le vittime di mafia».

In piedi accanto al suo avvocato, Gigiliola Bono durante il processo per il femminicidio della figlia - Foto Archivio Eden © www.giornaledibrescia.it
In piedi accanto al suo avvocato, Gigiliola Bono durante il processo per il femminicidio della figlia - Foto Archivio Eden © www.giornaledibrescia.it

Una richiesta che, se accolta, uniformerebbe l’Italia a quanto già predisposto dal Consiglio Europeo, che stabilisce che ogni Stato membro istituisca un regime nazionale di indennizzo delle vittime di tutti i reati intenzionali violenti. Al momento nel nostro Paese, secondo la legge 302/90, il risarcimento è possibile solo nel caso si tratti di vittime di mafia, di criminalità organizzata e di terrorismo.

Un’ulteriore beffa

Durante la sua battaglia legale, Gigliola Bono è stata anche vittima di una beffa: alla sua famiglia, infatti, è stato chiesto il pagamento del deposito della sentenza (8.400 euro) che l’assassino di sua figlia non ha saldato. La normativa infatti stabilisce che l’ente di riscossione per le spese di registrazione degli atti giudiziari si può rivalere su entrambe le parti in causa, applicando il criterio della solidarietà debitoria. Così, al termine del processo, i genitori di Monia Del Pero si sono visti recapitare dall’Agenzia delle Entrate una cartella esattoriale per le spese di deposito della sentenza di condanna, spese che dovevano ricadere sull’omicida. La famiglia Del Pero si è opposta e ha ottenuto la cancellazione della cartella esattoriale.

Il sostegno

Gigliola Bono da sempre supporta l’associazione Casa delle Donne di Brescia, che si batte contro il maltrattamento e la violenza alle donne. I contatti sono tutti disponibili a questa pagina online, ma per urgenze è possibile chiamare lo 030.2400636 o scrivere a casa@casadelledonne-bs.it. Ogni anno, proprio in collaborazione con Casa delle Donne e con il Cerchio degli Uomini, la famiglia Del Pero organizza un concorso letterario che si rivolge agli studenti delle scuole medie e superiori. Giunto alla quarta edizione, quest’anno il tema in memoria di Monia sarà «L’amore ai tempi della pandemia»: consegna degli elaborati entro il 13 marzo, mentre le premiazioni sono in programma il 5 maggio.

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