Donna morì dopo asportazione neo, Paolo Oneda torna libero

Il medico 47enne dell'ospedale di Manerbio, ora sospeso, era stato arrestato a aprile con l'accusa dell'omicidio di Roberta Repetto
Paolo Oneda, medico bresciano coinvolto nell'inchiesta per la morte di Roberta Repetto - © www.giornaledibrescia.it
Paolo Oneda, medico bresciano coinvolto nell'inchiesta per la morte di Roberta Repetto - © www.giornaledibrescia.it
AA

È tornato in libertà Paolo Oneda, il medico 47enne dell'ospedale di Manerbio (Brescia) arrestato il 21 aprile scorso con l'accusa di omicidio volontario dopo la morte di Roberta Repetto, a cui asportò un neo presso il centro olisitico Anidra a Borzonasca (Genova). Rimane il divieto di esercizio dell'attività medica.

Con lui a fine aprile venne arrestato anche il «santone» Paolo Bendinelli, già scarcerato alcuni mesi fa. Dopo l'asportazione del neo sulla schiena alla donna non fu eseguita nessuna biopsia e la donna venne «curata» con tisane e meditazione, fino alla morte avvenuta nell'ottobre del 2020. I due erano finiti in carcere e poi ai domiciliari, accusati anche di violenza sessuale e circonvenzione d'incapace. Nelle scorse ore il tribunale del Riesame di Genova ha accolto la richiesta del medico, disponendone la scarcerazione in attesa della chiusura delle indagini.

Le indagini

Immerso nel verde, il centro olistico di Anidra a Borzonasca in Liguria
Immerso nel verde, il centro olistico di Anidra a Borzonasca in Liguria

Paolo Oneda, chirurgo all'ospedale di Manerbio, è stato arrestato lo scorso 20 aprile. L’intervento sul neo di Roberta Repetto, 40enne figlia dell'ex sindaco di Chiavari Renzo Repetto, secondo le indagini sarebbe stato effettuato in un agriturismo gestito dal presidente e guida spirituale di Anidra, Vincenzo Paolo Bendinelli, pure lui arrestato. Secondo quanto raccontato dai genitori, Roberta sarebbe stata operata sul tavolo di una cucina, senza anestesia. L'asportazione del neo era neccessaria a «un presunto processo di purificazione spirituale».

Oneda avrebbe operato senza effettuare accertamenti istologici e poi le avrebbe prescritto «tisane zuccherate e meditazione». Alla comparsa dei dolori e del primo linfonodo «Oneda e Bendinelli avrebbero omesso di indirizzarla verso specifiche cure mediche», tranquillizzandola sulla sua guarigione. Quando è comparso il secondo linfonodo «le hanno detto che era segno della risoluzione del conflitto» e che «stava drenando la parte tossica».

Le condizioni della donna sono rapidamente peggiorate, tanto che su richiesta dei familiari è stata trasferita all'ospedale di Lavagna il primo ottobre 2020, dove i medici hanno diagnosticato «diffuse metastasi» prima di indirizzarla al San Martino di Genova, dove poi è deceduta. Roberta si era avvicinata al centro Anidra e alle scienze olistiche già da molti anni e in quel luogo aveva anche celebrato il proprio matrimonio, oltre a insegnare yoga e thai chi chuan. Una volta entrata nel centro del «santone» Vincenzo Paolo Bendinelli, era stata gradualmente assorbita da quell'ambiente, allontanandosi da amici e parenti per abbracciare totalmente gli insegnamenti del «Maestro».

Dopo l'interrogatorio

Mentre Vincenzo Paolo Bendinelli si era avvalso della facoltà di non rispondere, Paolo Oneda aveva sostenuto un interrogatorio di tre ore. Una strategia difensiva, quella scelta dal «santone» del tutto differente da quella del medico, che aveva ribadito la propria innocenza. A entrambi erano stati prima concessi gli arresti domiciliari - che il medico ha fatto a casa dei genitori nel Cremonese - e oggi la scarcerazione, in attesa della chiusura delle indagini.

«Risulta provato che l’intervento era avvenuto senza anestesia, su un tavolo all’interno del Centro Anidra, in una stanza adibita a cucina e altro - quindi in luogo non idoneo - alla presenza del Bendinelli e della psicoterapeuta bresciana Paola Dora, senza che il nevo asportato fosse conservato e fosse eseguito sullo stesso il necessario esame istologico» scriveva in quell'occasione il Tribunale del Riesame. «Doveva non effettuare l'intervento ben sapendo che facendolo avrebbe pregiudicato a Roberta la possibilità di fare una diagnosi che le avrebbe potuto salvare la vita».

A Oneda erano stati concessi i domiciliari perché «in quanto i genitori sono soggetti tenuti per legge al mantenimento del figlio e inoltre l’abitazione si trova in luogo geograficamente lontano e in contesto totalmente diverso da quello in cui i fatti sono avvenuti».

Riproduzione riservata © Giornale di Brescia