Angelica, farmacista ucraina: «Medicine per aiutare il mio Paese»

Non sono tutte badanti o colf. Le donne ucraine non sono una qualifica professionale che, una volta acquisita, non ha più speranza di essere modificata. Non è così. Lo dimostra la biografia di Anzhelika Shevchuk, 44 anni, prima laurea in farmacia conseguita in Ucraina e seconda a Ferrara nel 2012.
Per tutti noi lei è Angelica, farmacista dal cuore grande. E spezzato.
«Giovedì mattina il mio amico Igor mi ha mandato un messaggio dall’Ucraina. Due righe in cui ha scritto "la guerra è cominciata. Stanno bombardando Kiev, Odessa, Charkiv". L’ho letto un’ora dopo ed ho acceso la televisione, quasi in trance. Poi sono scoppiata a piangere e non riuscivo più a smettere. In casa si sono svegliati tutti. Tutti eravamo senza parole. Mi sembra assurdo, fuori luogo: vi sembra possibile che un Paese sovrano nel cuore dell’Europa possa essere attaccato così, come se nulla fosse, nel 2022?

Poche ore dopo l’attacco, lei è andata nella farmacia in centro storico dove lavora da quattro anni. Come ha vissuto quelle prime ore?
«Non è stato facile, ma sono stata sostenuta dall’affetto delle persone. In molti mi hanno abbracciata per farmi coraggio e qualcuno è riuscito a commuovermi. Come una ragazza di origine marocchina che mi ha dato del denaro per aiutare il mio popolo. Aiutare. Che bella parola. Io vivo per aiutare gli altri, così mi sono data da fare ed ho acquistato farmaci, integratori, oggetti di primo soccorso da spedire in Ucraina per le persone che combattono in prima linea. Il materiale partirà via terra stamattina, sabato. In queste ore stiamo organizzando un punto di arrivo in territorio polacco, dove i nostro connazionali verranno a prendere i pacchi. I confini sono aperti, ma per uscire le code sono lunghissime e, soprattutto, c’è il rischio che gli uomini non possano più espatriare».
In Ucraina si combatte da otto anni, durante i quali lei ha sostenuto i giovani al fronte. In che modo?
«Con i farmaci. Ne raccolgo molti, alcuni acquistati, altri donati da chi ha finito la terapia e ne avanza una parte. Così. Li raccolgo e li spedisco ad un’Associazione di volontari che aiuta quelli che sono in guerra. In abbigliamento militare, si recano nelle zone calde del conflitto, nella regione del Donbass e non solo. Adesso i bisogni sono tantissimi. È un disastro, un disastro. Un’invasione dettata dall’odio razziale. Come se il popolo ucraino non esistesse».Angelica, prima di emigrare, lei in Ucraina lavorava già da anni in una farmacia. Perché se n’è andata?
«Dovevo scegliere: con quello che guadagnavo o mangiavo o pagavo l’affitto. Siccome per vivere dovevo fare entrambe le cose, non mi rimaneva altro che partire. Quando sono arrivata qui avevo in tasca venti dollari. Ho iniziato a lavorare come colf e mi spostavo in bicicletta, anche su distanze impegnative. Ho lavorato in un supermercato, in un ristorante, nelle famiglie. Ma avevo un sogno, il mio sogno: un giorno lavorerò in farmacia, mi ripetevo».
È tornata in farmacia dopo aver letto un annuncio sul Giornale di Brescia.
«Sì, un giorno ho letto che cercavano personale per una parafarmacia a Cortefranca, nel centro commerciale «Le Torbiere». Ho mandato il curriculum e sono stata assunta come commessa. Nel tempo libero studiavo ed assorbivo tutto, come una spugna. Lo stesso quando ho lavorato con il dottor Schiavo, da cui ho imparato moltissimo. In molti mi hanno convinta a riprendere gli studi: in Università mi hanno tenuto validi undici esami e un anno di studio. Così, nel 2010 ho iniziato il secondo anno di Farmacia a Ferrara e mi sono laureata nel 2012: in due anni 27 esami, la tesi e l’esame di Stato. A volte sostenevo due esami, uno la mattina e uno il pomeriggio, per risparmiare i soldi del viaggio. Con me, spesso, portavo anche i miei due bambini perché non avevo a chi affidarli».
Lei lavora in corso Garibaldi, zona multietnica. Qual è il rapporto con i residenti?
«Aiuto tutti, di qualsiasi nazionalità. Con gli immigrati dell’Est, parlo russo. Con tutti gli altri sono accogliente. L’affetto delle persone per me è vitale, perché in qualche modo compensa quell’affetto che non ho ricevuto da bambina».
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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