Bassa

Strage di Torchiera, 30 anni dopo: dolore e memoria

La notte del 15 agosto del 1990 nelle campagne di Pontevico avvenne il massacro della famiglia Viscardi
GUIDO VISCARDI VUOLE IL DNA
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Un ruscello di acqua mista a sangue si infila sotto la porta della villetta. Scivola in cortile. Irrompe nella realtà, cancellando l’estate in largo anticipo. Fuori dalla casa piange e si dispera l’unico superstite. Sa che dentro, della mamma, del papà, del fratello e della sorella sono rimasti solo i corpi straziati. Non conosce il perché. Se lo chiederà in eterno, senza risposta e senza sosta. Tutti i giorni, più volte al giorno da trent’anni esatti. Tanti ne saranno passati domani dalla carneficina di Torchiera di Pontevico, dalla strage che rese Guido Viscardi orfano di tutto.

Ljubisa Vrbanovic, per tutti Manolo, e Ivica Bairic scelgono proprio la sera di Ferragosto del 1990 per mettere a segno il colpo nell’abitazione della famiglia: persone senza ombre, ben volute, tutte lavoro e lavoro, cresciute attorno alle fatiche che pretende un allevamento di polli. Mentre a Pontevico si stanno per spegnere le luci della festa dell’Assunta, il bandito e il figlio del più grande dei suoi fratelli, si introducono nella casa, hanno in pugno una 357 Magnum Smith&Wesson e una calibro 22. E le usano. Luciano Viscardi, 29enne fratello minore di Guido, si accorge dell’intrusione e probabilmente reagisce. Vuole difendere i suoi e la sua casa, non immagina quanto possa essere impari la sfida nella quale si imbarca. Le pistole sputano fuoco e in pochissimi istanti inchiodano il suo futuro e quello di suo papà Giuliano, di sua mamma Agnese e di sua sorella Maria Francesca, al loro passato.

Quando, la mattina del 16, Guido si presenta a casa dei suoi capisce subito che qualcosa non va. Quella copiosa scia che esce dalla villetta, il cancellino accostato, le persiane ancora chiuse - là in mezzo ai campi di mais e nel pieno di un’estate che non concede tregua a chi vive di terra e bestie - rimbombano come l’eco degli spari esplosi tra quelle mura. Un proiettile ha bucato un calorifero e aperto il diluvio d’acqua in casa. Gli altri hanno chiuso quattro esistenze. L’allarme scatta immediato. Trovare indizi a Ferragosto, nel cuore della Bassa, è complesso. Ma non impossibile. Qualcuno, nei pressi della villetta del massacro, ha visto una Mercedes forestiera.

  • Foto d'epoca: era il 16 agosto 1990
    Foto d'epoca: era il 16 agosto 1990
  • Foto d'epoca: era il 16 agosto 1990
    Foto d'epoca: era il 16 agosto 1990
  • Foto d'epoca: era il 16 agosto 1990
    Foto d'epoca: era il 16 agosto 1990

Gli uomini della Squadra Mobile, allora guidata da Nando Dominici e dal suo vice Gilberto Caldarozzi, dall’ispettore Primo Sardi partono da lì. Risalgono all’auto, scoprono che è un taxi rubato nelle Marche, ma anche che ha un telefono a bordo e che questo telefono ha fatto quattro chiamate a Kragujevac, in Serbia, a casa di Vrbanovic e di Bairic. È la svolta: ad ottobre Manolo è in manette, il nipote riesce a sottrarsi alla cattura, ma morirà poco dopo in un conflitto a fuoco. L’epica vuole che, per non farsi catturare dalla Polizia, si sia sparato con la stessa pistola del massacro dei Viscardi e così abbia lasciato sul campo la prova della sua presenza a Torchiera la notte tra il 15 e il 16 agosto.

Ljubisa Vrbanovic sarà condannato in Serbia, al termine di un processo dall’andamento non del tutto lineare, a 40 anni. In Serbia, la sua patria, morirà nel marzo del 2014 per un tumore. Contro di lui la giustizia italiana - non aggiornata circa il suo destino - nel dicembre del 2015 inizia ugualmente un processo che non decolla. Nella primavera dell’anno successivo agli atti della Corte d’assise arriva il suo certificato di morte. Non basta. Per abbassare il sipario serve la sua tomba. Qui nessuno sa dov’è: la trova il Giornale di Brescia. Dopo 27 anni il caso è chiuso.

 

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