Bassa

A 28 anni dalla strage di Torchiera, Viscardi chiede certezze

L’unico sopravvissuto al massacro ad opera di Manolo vuole l’esame del dna dell’assassino
Guido Viscardi chiede certezze sull’assassino dei suoi - © www.giornaledibrescia.it
Guido Viscardi chiede certezze sull’assassino dei suoi - © www.giornaledibrescia.it
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Guido Viscardi, di mestiere fa l’allevatore di polli, di mestiere fa il sopravvissuto. Ci chiama, chiede di sostenerlo nella memoria: «Aiutatemi, scrivete che il 16 agosto, anniversario della strage dei miei familiari, alle 9, come da 28 anni, ho fatto dire la messa sulla collinetta della casa, qui a Torchiera, nella frazione di Pontevico. Per pregare, ricordare, promettere di fare il mio dovere. E il mio dovere è di pregare e di conoscere. Non conosco ancora se sotto la terra di quella tomba c’è il corpo di Manolo oppure no. Manca il dna, le testimonianze dei parenti sono insufficienti. Comunque il dna risponde ad ogni dubbio. È il mio dovere e il dovere dello Stato. Ed è il mio diritto».

La villetta è immutabile, il dolore contiene una densità incalcolabile di sangue e lacrime. Guido Viscardi, la notte tra il 15 e il 16 agosto 1990, dormiva a casa con la moglie e la figlioletta, a duecento metri dalla villetta della madre Agnese, 55 anni, del padre Giuliano, 57 anni, dei fratelli Maria Francesca, 23 anni, e Luciano, 29. Furono massacrati da Ljubisa Vrbanovic detto Manolo e dalla sua banda composta da Ivica Bairic e Dragan Djordievic. Il capo era lui, questa specie di uomo, alto uno e tanto, olivastro, occhi spiritati, forte con le armi e debole a mani nude. Il più vile di ogni tempo. Carichi di armi e imbottiti di droga entrarono nella villetta e fu strage efferata. Volevano rubare, volevano ubriacarsi di morte. Manolo sostenne nel processo celebrato vicino a Belgrado, che il suo esempio fu il film «Arancia Meccanica». Parole, i fatti dicono sterminio, inferno, martirio contro i pacifici e i disarmati.

Stamattina alle 9 una Madonna in gesso si è inchinata davanti a un croce di legno, grande, costruita con le assi del pavimento insanguinato dal sangue dei martiri. Guido Viscardi decise di scrivere anche così il testamento della memoria, secondo una lingua implacabile per mostrare e farsi coraggio, per dire a tutti che qui, il 16 agosto 1990 accadde quello che non sarebbe potuto accadere. Perché? Perché la terra va difesa da tutti, non soltanto da una famiglia, perché una banda del genere non poteva circolare liberamente in barba a tutte le forze dello Stato, perché erano già scappati da prigioni e arresti e circolavano con un taxi rubato, perché a causa di tutte queste libertà rubate a uno Stato non sufficientemente forte, la strage fu possibile.

«Se fossero stati dove dovevano essere - dice Guido Viscardi -, in carcere, i miei genitori e i miei fratelli vivrebbero con me. E non so ancora se quello sepolto nel paesino vicino a Kraguievac sia Manolo o chissà chi. Chiedo il dna. Sono stato a Bruxelles, in Italia ho parlato con ministri e deputati, voglio vedere se circola ancora un senso di pietà e di verità. Chiedo troppo, a chiedere il dna di quel tizio sotto terra? È mio dovere e mio diritto oppure no? Ognuno di voi si metta al mio posto e poi risponda».

 

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