«Mi piacerebbe diventare madre, ma temo per la mia carriera»

«Il problema è che oggi non è possibile scegliere se avere figli o no indipendentemente dal lavoro. Sarebbe bello basarsi solo su motivazioni personali, ma è impossibile non tenere in considerazione tutto il resto». Chiara, che preferisce l’anonimato, lavora nella consulenza da qualche anno, dopo una laurea magistrale e diverse esperienze all’estero. Ha 31 anni e da un po’ si interroga sul suo desiderio di maternità. È un tema oggi centrale nel discorso su donne e lavoro, sulle difficoltà che incontrano in un mondo ancora troppo modellato sugli uomini, da riproporre in modo ancora più impellente nel Giornata internazionale della donna che si celebra oggi, 8 marzo.
Racconta la 31enne di Brescia: «Credo di volere figli, ma non mi sento libera di pensarci svincolata dalla mia carriera – dice –. Perché si sa benissimo che una volta messa in pausa è difficile riprenderla per una donna». Chiara lavora in una società che definisce inclusiva, nel senso di non discriminatoria verso le sue colleghe che sono diventate madri («ma so che non è la norma: a mia cugina è stato chiesto durante il colloquio se voleva avere figli, perché in quel caso avrebbero valutato se assumerla o no»). «La mia percezione del mondo del lavoro però è che se una donna decide di avere un figlio deve sospendere la sua carriera, e questo mi preoccupa». Lei è appena stata promossa, oggi coordina un team e potrebbe fare altri passi in avanti. Non vorrebbe rinunciarvi ma non è neanche disposta ad affidare a qualcun altro la crescita dei suoi eventuali bambini: «Vorrei esserci io, con il mio compagno, nel limite del possibile». In questo limite bisogna prendersi anche lo spazio per farsi i conti in tasca. Chiara ha uno stipendio ben più alto della media italiana (43mila euro lordi l’anno, più di 2.100 euro al mese netti), eppure le spese di una famiglia la preoccupano: «Lavoriamo entrambi a tempo pieno, ma con un figlio dovremmo pagare un affitto per una casa più grande, il nido e poi una babysitter. Ci staremmo dentro? Non ne sono certa. Ho parlato con tante persone che si sono licenziate dopo la nascita di un primo figlio: era più conveniente».
L’opzione del part time non la entusiasma. Al contempo, teme una disapprovazione sociale se dovesse mai decidere di non ridurre il tempo del lavoro a favore della famiglia: «È inutile girarci attorno. Sono sempre le donne a prendersi cura. Credo che non vivrei bene domande del tipo: "ma come, non allatti?". E d’altra parte in Italia non è ben visto ancora un padre che prende il part time, solo per una questione di pregiudizi. Lo si bolla come il "mammo"».
Di una cosa però Chiara è convinta, e cioè che sia questione di tempo, di generazioni e di mentalità: «C’è un cambiamento culturale, che però va supportato con servizi adeguati. La sensibilità ormai è cambiata».
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