La storia del bresciano Maracani: «I miei attrezzi usati a Chernobyl»

Da giovane era un ragazzo solitario, ma la sua passione e il suo ingegno per il disegno tecnico hanno trasformato la sua vita - fatta di tanto lavoro e di tante scoperte - in un climax di avventure che intrecciano la storia di Brescia con quella internazionale e, soprattutto, con «invenzioni» e rivoluzioni (dal design alla meccanica) che hanno segnato la storia.
Ma per Gianfranco Maracani - classe 1939, «nato in corso Garibaldi», occhi profondissimi e un jukebox di storie alle spalle - se alcune imprese erano chiare fin dal principio (come quando si è trovato a collaborare per la Bialetti, o a tu per tu in Giappone con il primo robot antropomorfo o, ancora, in Canada con la Ford), altre le ha scoperte solo ad anni di distanza. Come quella che lo ha portato più e più volte a Mosca. E che solo decenni più tardi ha capito che aveva molto a che fare con la centrale nucleare di Chernobyl.
Il test finale
«Io sono uno di quelli che non ha mai timbrato il cartellino, ho sempre lavorato finché non si finiva. Il disegno tecnico mi ha sempre appassionato e via via le mie piccole innovazioni mi hanno portato sempre più avanti. Ho cominciato a fare un po’ di tutto, poi ho creato la mia azienda». Pian piano, nel suo lungo percorso, Maracani è diventato un punto di riferimento per tantissimi grandi nomi di aziende bresciane e non solo. Ma ad inaugurare la stagione dei viaggi in ogni dove sono state le Fiere.
«Mi è capitato di andare anche a Mosca, dove ho conosciuto un ingegnere». In quel momento per Gianfranco inizia una lunga collaborazione: «Siamo alla fine degli anni Settanta, al tempo gli acquirenti erano tutti ministri e sotto il profilo tecnico in Russia non erano molto all’avanguardia». La stagione degli incontri dura circa sei mesi: «O venivano loro a Torino oppure andavo io a Mosca. Mi hanno chiesto di realizzare un’attrezzatura che consentisse loro di sollevare l’acciaio inossidabile. E così ho fatto: ho realizzato delle ventose particolari e una trave enorme, si trattava di lastre di 10 metri spesse 10 centimetri».

Maracani lavorava alla Gaus automazione: «Loro non mettevano mai a conoscenza del progetto complessivo, spiegavano solo a cosa doveva servire un pezzo o uno strumento. Era tutto al buio: avevo solo a disposizione dimensioni e peso di ciò che si doveva spostare».
Un’attrezzatura che, prima di essere spedita in direzione Cremlino è stata testata sempre nel Bresciano: «Stiamo parlando di dieci tonnellate. Per questo il test finale è stato eseguito in una carpenteria che aveva delle gru molto potenti: abbiamo sollevato questo lastrone a mezzo metro da terra, poi è stata tolta la tensione e per tre minuti doveva stare appeso. Durante questo procedimento suonava una sirena per permettere alle persone di allontanarsi. Il test ha funzionato e a quel punto abbiamo spedito il materiale».
Lo stupore
Da quel momento in avanti i rapporti professionali con Mosca si interrompono e Maracani si dedica alla sua attività. Solo anni e anni più tardi ha capito a cosa era effettivamente servito il suo lavoro.
«Mi sono accorto solo anni dopo il disastro che quel meccanismo era servito per realizzare la centrale di Chernobyl, perché le immagini dell’impianto non sono state divulgate immediatamente, anzi. La centrale era sventrata. Circa otto-dieci anni più tardi hanno fatto vedere i contenitori e solo in quel momento ho scoperto che l’attrezzatura era servita per realizzare i tubi dei reattori dell’uranio». Maracani lo ripete più volte: «Io non sapevo assolutamente che la consulenza fosse per questo, perché allora quando si vendeva qualcosa in Russia non si sapeva neppure quale fosse la destinazione finale della merce: la si inviava al deposito e la smistavano loro».
Oggi, a distanza di decenni, resta lo stupore. E un dubbio di fondo: «Non escludo a questo punto che quella stessa attrezzatura sia poi stata utilizzata per realizzare altre centrali, anche in Ucraina».
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