In bici attraverso la Patagonia per raccontare chi ne è l’anima

Metti in Patagonia due bresciani trapiantati da anni in Spagna e un pugliese di casa a Milano. Che ci fanno lì? Pedalano. Meglio, viaggiano in bicicletta. Non solo. Incontrano persone. La gente che è e vive la Patagonia. E per giunta la raccontano agli altri. Aggregando con video e foto storie di ordinaria eccezionalità.
Con sintesi estrema è questa l’essenza di Tratti, il documentario che - anteprima milanese per la stampa a parte -, sarà visibile per la prima volta la sera dell’8 giugno al Bam!, evento culto di cicloturismo che si tiene annualmente a Mantova (www.bameurope.it). Ma andiamo per gradi.
Willy Mulonia
«Mi manca il nostro dialetto, poterlo parlare quotidianamente». La confidenza affidata con l’inconfondibile voce graffiata dall’inflessione iberica ad una telefonata tra la Sierra de Guadarrama, i monti che fanno da quinte a Madrid, e Brescia, dice molto della passione di Willy Mulonia da Chiari (Guglielmo all’anagrafe), 56 anni, da decenni di casa in Spagna, per quelle espressioni intraducibili che sono cifra della terra a cui si appartiene. E al contempo della sete di parlare, di ascolto e di dialogo con l’altro a cui restituire, quasi fosse un ritorno metaforico, una vita vissuta in viaggi e luoghi estremi sulle due ruote. Quelle, a trazione umana, di una bicicletta. La scoprì quasi per caso, come racconta nell’avvincente libro autobiografico «Chino verso nord»: dopo un infortunio, gli fu prescritta come terapia. Non ne è più sceso. All’inizio - ci si conceda un pizzico di ostentato orgoglio - ci furono i percorsi locali proposti dalle guide in edicola nei primi anni ‘90 con il GdB. Poi corse in Australia e traversate dell’Alaska, pedalate oltre i limiti sui 5.000 del Tibet (dove nel 2004 quasi incrociò il Gnaro Mondinelli, «ora siamo vicini di casa a Pezzoro» scherza) e tra le lande della Mongolia. Ma su tutto aleggia il mito del viaggio che ha di fatto dato il la alla sua seconda vita: 27mila km per andare con una bici carrellata da 70 kg (ancora visibile nello store Gialdini di via Triumplina, in città, appesa come un raro cimelio) dalla Tierra del Fuego, estremo sud del Continente americano, fino all’opposto, al nord che si addensa tra i ghiacci artici: l’Alaska.
Paolo Penni Martelli
Tra le espressioni dialettali più stravaganti che Willy rievoca al telefono fra le cime che separano la capitale spagnola e Segovia c’è «fa la someansa»: «Me l’ha detta una volta il Carletto (all’anagrafe Carlo Pelizzari da Tavernole, suo amico e collaboratore), per alludere al fare una fotografia. Formidabile l’idea, retaggio ottocentesco, che la luce inghiottita da una pellicola (o oggi un sensore) restituisca un’immagine somigliante, appunto, alla realtà, ma non identica. Dietro c’è un mondo di saggezze, forse persino di genuine diffidenze valligiane. Ecco, ad ogni buon conto, proprio di someansa si occupa Paolo Penni Martelli, 41 anni, originario del Villaggio Prealpino, ma da 17 anni di casa a Barcellona.
Nel panorama dei fotografi di ciclismo è un nome e ha uno stile tutto suo: mette in relazione l’uomo, ancor più dell’atleta o del viaggiatore a pedali, con l’ambiente che lo circonda, annegandolo in paesaggi giganteschi e sconfinati, bellissimi, in cui talvolta appaiono infinitamente piccoli, lui e il suo cavallo d’acciaio. Eppure ne escono incredibilmente esaltati. Skater per primigenia passione, fisioterapista per studi, è approdato alla fotografia di ciclismo passando non esattamente dalla porta di servizio, visto che, come lui stesso racconta, iniziò inviando un servizio a una rivista britannica di culto come Rouler: «Mi risposero nel giro di 24 ore e lo pubblicarono». Lui e Willy si sono conosciuti per una triangolazione tutta bresciana in terra iberica: Mulonia cercava un fotografo per un evento (L’Eroica di cui da anni cura l’edizione spagnola) e glielo consigliò il telaista bresciano trapiantato a Barcellona Mattia Paganotti (vedi alla voce «Legor Cicli», dove in legor riecco fare capolino il nostro dialetto), amico di lungo corso di Martelli. Da allora i due pedalano spesso insieme per le vie del mondo.
Frank Lotta (e l’intervista a Cimmo)
Ai due bresciani aggiungi un outsider incontrato però sempre e rigorosamente in contesto nostrano. Frank Lotta (Francesco all’anagrafe) è voce e volto noto di Radio Deejay, sulle cui frequenze conduce Deejayontheroad, rubrica dedicata ai viaggiatori. Lo scorso autunno ha proposto un’intervista a Willy, che ha chiesto al Carletto ospitalità nella sua Cimmo per un set confortevole in terra italica. L’esito è disponibile su Youtube, un’intervista fiume che è costata a Lotta tutte le schede di memoria e le batterie a disposizione. Ma da cui è nata l’idea di fare un viaggio insieme. In Patagonia. E siccome a volte i cerchi quadrano, pure Lotta e Martelli si erano conosciuti da poco in Puglia, terra di origine del primo, in cui il fotografo era per un servizio di Destinations, pubblicazione di culto e appendice della rivista Alvento (di cui il bresciano è «home photographer»), che immortala angoli di quella meraviglia da pedalare chiamata Italia. Il trio per partire è stato presto chiaro.
Tratti
Il viaggio - ed eccoci a Tratti - è diventato poi un documentario. Anzi, per dirla tutta, il primo tassello di un progetto ben più ambizioso, fatto di cinque potenziali capitoli dedicati ad altrettanti Paesi da scoprire in sella ad una bici - anzi a tre - nell’arco di un lustro. Quasi un segno che si parta proprio dalla Patagonia, dove per Willy tutto è iniziato tanti anni fa, dove incidentalmente ha trovato moglie - e quindi, idealmente, pure i tre figli -, e dove il clarense è tornato nel frattempo altre 21 volte da guida di PA Cycling, il tour operator specializzato che ha fondato e col quale porta cicloturisti all’avventura in mezzo mondo, dal Giappone alle Americhe.
«Ci è stato subito chiaro cosa non volevamo fare» raccontano Willy e Paolo, finalmente raccolti in terra bresciana, davanti al fuoco che crepita in una novembrina mattinata di maggio nel buen retiro trumplino di Mulonia, che lo ha fatto suo per poter parlare un po’ el nòs dialèt. «Non volevamo fosse un documentario di paesaggi come tanti, non la storia di un viaggio, ma che al contrario raccontasse chi la Patagonia la vive tutto l’anno, la respira». Ecco i protagonisti, le persone incontrate nel corso delle cavalcate interminabili attraverso le sconfinate distanze sospese tra Cile e Argentina, o meglio una selezione inevitabile per ragioni di tempo (il documentario dura poco meno di un’ora).
Alcune sono vecchie conoscenze di Willy, altre incontri casuali. Quattro le figure scelte per dare forma a Tratti, «nome che è stato proposto a Frank e che ci è parso perfetto». Tratti sono quelli di strada percorsi (circa 1.000 km pedalati fra il 31 gennaio e il 18 febbraio chini verso sud, da El Calafate a Ushuaia), tratti sono quelli che segnano i volti in una terra da cui, come dice Mulonia, «nascono i venti», tratti sono quelli peculiari che rendono unica ogni persona.

Tra i panorami magnetici, mozzafiato, i cieli immensi in cui si perde la polvere delle piste, ecco apparire Miguel, Mario, Carlos ed Emilio. L’estanciero (il fattore) che vive solo in una vasta tenuta e si occupa dell’allevamento, il trentino emigrato in Cile con i Salesiani che a 94 anni sprizza vita da tutti i pori, il pescatore che vive su un autobus sulla riva del lago Blanco. E il fornaio di Tolhuin da sempre vicino ai cicloturisti, a cui un incendio distrusse la panetteria nel 2021, ricostruita grazie ad una raccolta fondi lanciata da Willy, il cui nome per gratitudine ora campeggia su una mattonella («ogni tanto qualcuno gli chiede se io sia sepolto lì» racconta sorridendo Mulonia). Interviste, racconti, sguardi, silenzi, risate, che sono il respiro della Patagonia. Scandito dalle immagini potenti di Lotta, regista del progetto, e dalle foto formidabili di Martelli che incidono istanti e danno ritmo, oltre che dalle parole di Mulonia, nel ruolo di guida sapiente e travel master.
Un lavoro che emoziona già così - persino gli stessi autori, che a rivedersi specie nella proiezione sul maxischermo del Cinemino milanese, non nascondono di avvertirne la forza - ma che nell’intento si arricchirà di un libro fotografico non privo di corredo infoturistico per chi volesse poi mettersi in marcia. E così sarà per i capitoli futuri: «Abbiamo in mente Giappone, Mongolia, Deserto di Atacama, Islanda e Alaska».
Luoghi già attraversati, ma per dirla con Willy Mulonia «un luogo non è mai uguale anche se lo ripercorri venti volte, cambi tu e lui cambia con te. Quelle che ti restano sono le emozioni e le persone che te le suscitano». La formula, assicurano, resterà invariata: i tre viaggiatori, «le riprese e il racconto che impariamo a fare facendolo», la filosofia e la bicicletta. «Si potrebbe fare anche senza, la bici è uno strumento che semmai ci lega, che ci consente di andare in posti ai quali le auto non accedono, vedere cose che altrimenti non vedresti» conclude Mulonia. «E ti dà la giusta velocità - gli fa eco Penni Martelli - ti stanca abbastanza da godere delle piccole cose, oltre ad essere un biglietto da visita speciale: chi ha paura di tre che arrivano faticando su altrettante bici stracariche?». Cavalieri erranti su destrieri di carbonio alla ricerca di incontri che svelino mondi.
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