Grande Nevicata, i ricordi di chi era a Brescia nel 1985

Sono trascorsi quarant’anni dalla Grande Nevicata che nel 1985 seppellì Brescia sotto una pesante coltre di neve. Tra il 13 e il 15 gennaio di quell’anno i bresciani vissero un’esperienza rimasta indelebilmente nella memoria di tutti. Ecco due ricordi di quegli incredibili giorni.
La parentesi calma che ci piace rivivere
Sarà un caso, ma sicuramente è una di quelle coincidenze che paiono avere un senso. In quei giorni di metà gennaio di quarant’anni fa al secondo posto della hit parade italiana dei singoli più venduti, dietro ai sussurri imprudenti (Careless Whisper) di George Michael, c’era The Neverending Story di Limahl. Col sottofondo musicale di quel pezzo e in un’atmosfera fantastica degna del film di Petersen nasceva, fiocco dopo fiocco, dolcemente, la storia infinita di quella Grande Nevicata che ancora oggi raccontiamo, ripetuta e non corretta, a quattro decenni di distanza.
Ci piace ripassarla, riviverla, tirarla nuovamente fuori dai cassetti della memoria. Ci viene facile ripercorrere le orme di quei passi solcati a fatica in uno strato bianco mai affrontato prima. Io ricordo i miei, incerti, quando mamma e papà quella mattina dissero a me e a mia sorella che sì, bisognava andare a scuola, anche se guardando fuori dalla finestra di asfalto sulla strada non ne vedevo proprio e di calzature adatte, in casa, proprio non ce n’erano. La necessità, si sa, aguzza l’ingegno ed ecco che due belle, robuste borsine del supermercato legate al ginocchio avrebbero fatto da ghette per quelle poche centinaia di metri che ci separavano dalle Elementari di via Costalunga 15, che allora non portavano ancora il nome di Quasimodo. Il Nobel per la Letteratura non c’era, quello per la Scienza applicata quella mattina era cosa nostra. Al pomeriggio avremmo recuperato i vecchi scarponcini di foca della nonna: non si butta via niente, ma questa è un’altra storia.
La campanella in via Costalunga 15 quel giorno suonò per pochi, poi tacque a lungo per decisione delle autorità, che chiusero le scuole, come apprendemmo (con larghi sorrisi) dal giornale radio di Radio Bresciasette. E poi ancora fiocchi, la storia infinita di una nevicata che non la smetteva più e poi di un manto bianco resistente, disagevole per molti, pericoloso per alcuni, magnifico per i più. Sì, perché qualche lamentela ci fu, più che giustificata, ma la prima reazione per la stragrande maggioranza dei bresciani fu quella dell’incanto davanti allo spettacolo della natura, seguito dalla serena accettazione della situazione e dal pronto rimboccarsi delle maniche.
I più felici, naturalmente, bambini e ragazzi, per giorni lontani da scuola e impegnatissimi a sperimentare tutti i modi per divertirsi con quell’elemento bianco. E sono proprio loro, oggi adulti cinquanta-sessantenni, a coltivare maggiormente il ricordo di quell’evento, un minimo comun denominatore di un paio di generazioni di bresciani che hanno condiviso giorni ovattati, immersi in un’assenza di colore che attutì ansie e paure. Ricordi spensierati di una parentesi calma che magari, di tanto in tanto, vorresti poter aprire. Che se poi non riesci, ti ributti almeno per il tempo di due chiacchiere in quella fantastica storia infinita.
(di Alessandro Carini)
Le auto, tanti igloo e gli intrepidi sciatori
Della grande nevicata, quarant’anni dopo, restano suoni e immagini chiari e vivide. Suoni surreali; magari alieni, come il boato prodotto dallo schianto della tettoia precipitata su uno scafo da yacht parcheggiato sotto casa, appena fuori dal cantiere nautico che occupava mezzo cortile; ma anche famigliari, come la voce di mamma, che la mattina successiva, nonostante il risveglio al Polo Nord, trovò comunque e subito il suo proverbiale senso dell’orientamento e quello del mio dovere, mi indicò la direzione della «Fermi» – che doveva essere là in fondo a destra, sotto una slavina, ma sicuramente aperta – e mi cacciò in spedizione senza Armaduk, senza la sua botticella di cordiale al collo e senza nemmeno le pelli di foca: «A scuola!».
Ai suoni bisogna aggiungere il silenzio che, senza traffico, si posò sul quartiere per giorni, e la voce degli haters ante litteram, che attraverso Radio Monte Maddalena, accesa tutto il giorno in casa, riversavano nell’etere la loro rabbia contro le istituzioni incapaci di contenere o risolvere in fretta il più clamoroso evento atmosferico mai accaduto in città e provincia.
La scelta delle immagini è più complicata. Colpa dell’abbondanza. La neve, quella domenica notte inaugurata da quel boato, in poche ore si era rubata tutte le auto in sosta, se le era portate via con le loro autoradio nascoste sotto il sedile. Al loro posto aveva lasciato una serie di inaccessibili igloo che, ma solo per l’occhio allenato di compulsivi collezionisti di macchinine, potevano avere la forma di Fiat Uno, di Renault 5, di Lancia Thema.
La strada, illuminata a giorno come uno stadio del fondo scandinavo, quella notte era tutta per un solo utente, un intrepido sciatore. Passo skating andava avanti e indietro da via Baracca godendosi la sua personalissima Marcialonga. Nei giorni successivi a lui si aggiunsero tutti gli Ingemar Stenmark del quartiere impegnati sulle discese dei garage, e un esercito di ragazzini, esonerati per giorni da scuola e dai compiti, per i quali ogni cumulo di neve divenne una pista dell’olimpica Sarajevo ’84. Quella nevicata fu occasione anche di business, almeno per chi non si ammalò perché spedito in classe contro ogni pronostico. Mentre le ruspe accumulavano in via Gamba montagne che si sarebbero sciolte solo a giugno, chiara – ma solo dalla finestra – è l’immagine degli amici al lavoro per liberare passaggi pedonali e carrai, per mance che non si sono mai più viste. Proprio come quella indimenticabile nevicata.
(di Pierpaolo Prati)
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