L'importanza di chiamarsi Guglielmo

Il gusto di andar per monti: tra corna e colmi
Il monte Guglielmo visto dal Castello - Foto Giandomenico Bondioli © zoom.giornaledibrescia.it
Il monte Guglielmo visto dal Castello - Foto Giandomenico Bondioli © zoom.giornaledibrescia.it
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Estate, fioriscono le escursioni. Sono giornate in cui è bello alzare gli occhi verso le cime. Alla montagna i bresciani sono intimamente, quasi geneticamente legati. Il monte è il mónt (lo stesso suono ha curiosamente la parola che in bresciano significa mondo, che pure arriva da radice diversa). Oppure è il mut, a seconda della parte di provincia dove avete imparato a parlare.

E poi ci sono i termini che ricorrono spesso per indicare una cima. Quella aguzza è il còrno (Corno d’Aola, Corno Bianco, Corno Marcio...), il córen (Coren de le fate, Balòta del coren...) o al femminile la còrna (Corna Blacca, Corna di Trentapassi...). La cima a panettone, in dialetto, è invece la cólma (o la cùlma, anche qui a seconda delle zone): si pensi al gir dèle cólme, l’anfiteatro che si affaccia sul Pian delle viti, sopra Provaglio d’Iseo. A dire il vero la cólma è anche la grossa trave centrale di un tetto, a cui si appoggiano i travetti inclinati.

E alla stessa radice - la parola latina culmen, che indica il punto più alto - risale il nome Gölem che i bresciani danno da secoli al massiccio adagiato tra Valtrompia e bassa Valcamonica. È stato italianizzato in Guglielmo per un fraintendimento. Forse addirittura per quella vergogna atavica del dialetto che affligge il popolano (si narra sorridendo che qualche nonna originaria di Nigoline sia arrivata a rispondere Nuvolette di Cortefranca a chi da fuori le chiedeva del suo paese). Sta di fatto che quell’errore, quel culmen tradotto in un nome proprio, ha avuto quasi l’effetto di personificare il Guglielmo, di farlo sentire ancora più vicino e intimo. Non un monte, un amico.

 

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