Cinque anni senza Nadia Toffa: «Continuo le battaglie di mia figlia»

Margherita Rebuffoni è la mamma della conduttrice bresciana delle Iene morta il 13 agosto 2019 per un tumore al cervello: «I social? Un modo utile per aiutare, come faceva lei»
Margherita Rebuffoni, madre di Nadia Toffa, con un ritratto della figlia - Foto © www.giornaledibrescia.it
Margherita Rebuffoni, madre di Nadia Toffa, con un ritratto della figlia - Foto © www.giornaledibrescia.it
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«La perdita di un figlio ti stravolge la vita». Quando Margherita Rebuffoni pronuncia questa frase l’intervista è quasi finita. Lo fa con lentezza, pacata. Riassume così il vuoto con cui, da madre, prova ogni giorno a convivere: «Ti cambia la visuale su gran parte delle cose. Tante smettono di avere importanza. Altre diventano irrinunciabili». Quelle alle quali ha promesso che non avrebbe mai rinunciato sono innanzitutto i sogni di lei. Della figlia che ha perso, le sue ossessioni, e le sue battaglie.

Sua figlia era Nadia Toffa, l’inviata bresciana de Le Iene diventata nota in tutta Italia per le sue inchieste su inquinamento ambientale, camorra, mala sanità, gioco d’azzardo, ma anche per aver sdoganato il racconto della malattia sui social, con un sorriso e una grinta che l’hanno fatta amare da molti. Sono passati cinque anni dalla morte della «guerriera», come lei stessa si definiva, portata via il 13 agosto 2019, a 40 anni, da un tumore molto aggressivo al cervello, il glioblastoma, mentre era ricoverata alla Domus Salutis. «Per me però lei è sempre qui. Mi guida, è con me. E mi ha lasciato tante cose da fare», dice mamma Margherita.

È un pomeriggio di luglio, parliamo nel salotto della casa di Mompiano osservate dall’intenso ritratto di Nadia sopra alla scrivania, un regalo di un amico camuno. La prima cosa che si vede entrando in casa.

Che progetti aveva in mente Nadia per lei?

Intanto, non voleva assolutamente che andassi in depressione. «Non piangere mamma, ti aiuto io», mi diceva. E infatti mi ha lasciato una lista di cose sul computer. La prima era pubblicare quello che aveva scritto negli ultimi mesi di vita. Dormivamo insieme e quando mi svegliavo di notte la vedevo sempre lì intenta a scrivere dal cellulare: «Altrimenti poi mi dimentico». Poi la mattina me le leggeva.

Pubblicherà questo materiale?

Avrei voluto pubblicarli con Chiarelettere, perché erano cari amici di Nadia. Prima o poi lo farò.

Il secondo punto della lista?

Aiutare gli ultimi, quelli che non hanno i mezzi per farcela da soli, e sostenere la ricerca sul glioblastoma e sui tumori. Nadia pensava sempre alla Terra dei fuochi, diceva che Brescia era ancora più inquinata, tra la Caffaro e gli altri disastri. Però qui si sapeva, mentre al Sud tutti tacevano e lei voleva fare qualcosa. Poi voleva che mi impegnassi ancora per l’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, e per l’ospedale di Taranto, a cui la vendita delle magliette con la scritta “Ie jesche pacce pe te” (io esco pazzo per te), di cui Nadia fu testimonial, donò oltre 500mila euro per Oncoematologia pediatrica. Per questo abbiamo creato la Fondazione Nadia Toffa, che ci porta in giro per l’Italia. È così che mi accorgo di quanto le vogliano ancora bene.

Oggi sui social si parla di malattia e salute mentale, ma sua figlia è stata tra i primi a farlo apertamente. Cosa la spinse?

Pensava di poter aiutare qualcun altro nella sua situazione. Diceva che molti, quando ricevono la diagnosi di tumore, si chiudono in se stessi. Nadia sapeva di essere fortunata, aveva ancora la trasmissione, un lavoro che l’ha appassionata fino all’ultimo e una vita piena di persone amate. Voleva aiutare gli altri malati a uscire di casa, a credere che potevano fare ancora qualcosa delle loro vite. E anche i loro familiari a non ripiegarsi nel dolore.

Per questo ripeteva a se stessa che era una «guerriera»?

Sì, e lo ripeteva anche agli altri malati. Non dovete mai mollare, diceva. Se anche questo è il nostro destino – continuava a dire –, non possiamo farci niente, ma la vita è una cosa preziosa, sacra, e dobbiamo viverla nel modo migliore possibile. Non più a lungo, quello non lo si può decidere. Ma sul come ci si può provare. Così anche se stava male voleva fare tutto: comprò i colori per disegnare, mise su Spotify due canzoni scritte da lei, si fece fare un paio di Clarks su misura con i disegni dei cartoni animati. Adesso le indosso io, abbiamo lo stesso numero.

Si ricorda il primo post?

Sì, ero presente. Disse: ricordatevi che è buona la prima, anche perché è già faticosissima. Erano passati cinque, sei mesi dalla diagnosi e aveva già avuto due recidive. Stava facendo la radioterapia, poi venne operata.

Chiamava il tumore «il bastardo».

«Si è ripresentato il bastardo, mamma», mi diceva. La operarono cinque volte, poi il suo dottore disse che il tumore si era spostato in una zona del cervello dove speravamo non si spostasse. Lei se n’era accorta, non riusciva più a chiudere bene la mano. Le ultime trasmissioni le fece con le scarpe da ginnastica perché non appoggiava più il piede, ma non le importava nulla del tacco 12.

Cosa facevate quando tutta quest’energia un po’ inevitabilmente calava?

Pregavamo insieme la Madonna. E poi andavamo al mare, o a Milano, o dal parrucchiere. Andammo insieme anche dal presidente della Repubblica Mattarella, che la invitò a Roma quando uscì «Fiorire d’inverno». La esortò a continuare a parlare pubblicamente di quello che stava vivendo, perché era convinto che avesse un valore. Tornammo indietro da quel viaggio con la nostra cagnolina Totò, un regalo di Nadia.

Mi sta raccontando una vita quasi in simbiosi tra madre e figlia.

Una volta Nadia scrisse che mi aveva trascinata in uno tsunami. Le promisi che non l’avrei mai lasciata. Anche alla Domus andammo insieme: le mentii e le dissi che dovevano curare anche me perché ero debilitata. Non mi fece domande e di giorno mi chiedeva di mandare i suoi suggerimenti per nuove inchieste ai colleghi. Fino ai primi di agosto, quando iniziò a dormire di più e a mangiare poco.

Cosa ha lasciato Nadia Toffa alla famiglia e al pubblico?

A noi Alba Nadia, figlia di un’altra mia figlia nata sette mesi dopo la sua morte. Un terremoto, proprio come lei, che si sentiva che Alba sarebbe arrivata. Alle persone il fatto che condividere, anche sui social, può aiutare a rasserenarsi un po’, e magari a raccogliere nuovi fondi per sostenere la ricerca per tutti quei tumori che ancora non hanno cura.

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