Dancelli, l’uomo delle imprese impossibili nell’Olimpo dei grandi
L’uomo che volle farsi impresa. «Vincere facendo l’impresa vale dieci vittorie normali», diceva Michele Dancelli, classe 1942 da Castenedolo, uno che in gruppo non ci voleva stare e che non si contentava di tagliare il traguardo per primo: voleva arrivare da solo, a braccia alzate, godendosi gli applausi tutti per sé e facendo in modo che l’attimo del trionfo durasse il più possibile, meglio se lunghi chilometri, ossia, qualche ora. «Se scatta Michele, ditegli di aspettare - spiegava Giorgio Albani, direttore sportivo della Molteni, ai suoi compagni di squadra, prima delle corse importanti -. Se non vi da retta, tenetelo per la maglia. Le sue fughe nascono sempre troppo presto», insisteva.
Non solo Sanremo
Al Giro dell’Appennino del ‘66, 215 chilometri di fuga. Prima con Tosello e Macchi, poi da solo. «Dove vai? – lo rimproverava Albani, scuotendo la testa -. Non vedi che vai a morire? Aspetta gli altri, risparmiati». E lui, testardo, invece, a spingere sui pedali. Sulla salita della Scoffera, il gruppo si mise a inseguirlo a tutta. «E sapete come andò? - raccontava Michele Dancelli -: che in cima al Gran Premio della montagna, dopo una serie di "trenate" con la bava alla bocca, loro in trenta o quaranta e io da solo, mi avevano rosicchiato solo dieci secondi».
Il giorno del trionfo. La grande impresa di Michele Dancelli, è noto, fu la Milano - Sanremo, 19 marzo 1970 festa comandata di San Giuseppe e al tempo data fissa della Classicissima: la sua consacrazione definitiva di campione assoluto, la sua tesi di laurea in materia di generosità, attacco, cuore. «Quel traguardo in fondo al viale, dopo la fontana, con la gente che mi applaudiva, impazzita, in mezzo alla strada, è un’immagine che non dimenticherò più». Quel 19 marzo 1970, giovedì, erano diciassette anni che un italiano non vinceva in via Roma. L’ultimo era stato Loretto Petrucci, nel 1953. È anche per questo che la corsa, all’epoca, aveva i contorni della leggenda: si diceva fosse "stregata" per corridori di casa.
L’affondo decisivo
«La svolta avvenne a Loano – ricordava Dancelli –, dalle parti dell’Hotel Cabiria». In testa una decina: Van Looy, Roger De Vlaeminck, Zilioli, Godefroot, il tedesco Wolfshohl, Leman e qualcun altro, tra cui Carlo Chiappano (scopritore anni dopo di Beppe Saronni ndr.) che quell’anno correva in squadra con Michele. «Un amico mi aveva spiegato che davanti all’albergo c’era un traguardo a premi e, poche centinaia di metri più in là, ce n’era un altro dove in palio avevano messo una medaglia d’oro. Visto come si stavano mettendo le cose, dissi: conquistiamo almeno i premi di consolazione e spronai Chiappano ad andare a vincere il primo dei due traguardi. Subito dopo, allungai il passo per aggiudicarmi il secondo.
Fu lì che mi accorsi che gli altri non tenevano più il mio passo e proseguii. È inutile che vi dica della faccia di Giorgio Albani, quando mi sia avvicinò con la vettura: teneva le mani giunte davanti al viso e le scuoteva come per dire: ma cosa fai... All’arrivo, però, piangevano tutti: Albani, el sciur Pietro Molteni, Ernesto Colnago, che aveva passato tre ore, in piedi, con la bici di scorta pronta sulla spalla. Sul rettilineo d’arrivo, finii per mettermi a piangere anch’io. E che festa, la sera, a Castenedolo. Non mi pareva vero. È stata una delle giornate più belle della mia vita.
Un libro che racconta le gesta. Come ricorda Paolo Venturini in «Michele Dancelli, l’asso di Fiori» edito dalla Compagnia della Stampa Massetti Rodella «tutte le gare erano per Michele, se solo lui avesse voluto, su ogni terreno: corse in linea o a tappe, pianura o montagna». Un giudizio certificato all’epoca da Bruno Raschi principe dei giornalisti del pedale che ispirò Colnago a creare il logo della sua azienda di biciclette in ricordo di quell’impresa memorabile, ovvero l’Asso di Fiori.
«Il mio limite è stato l’orgoglio – spiegava qualche tempo fa Dancelli ripensando agli anni della sua carriera da professionista -. Io volevo vincere ogni gara a cui prendevo parte, ogni tappa dei giri in cui mi presentavo al via. Non conoscevo la parola tattica e nemmeno il termine risparmio. Con un po’ più di saggezza probabilmente avrei potuto vincere cinquanta corse in più. Ma vuoi mettere il piacere di attaccare, di partire da solo, di fare la corsa di testa… Io ero così». Ed è il motivo per il quale aveva tanti estimatori e gente che gli voleva bene: grintoso sulla sella, ma umile e pacifico nella vita quotidiana.
I funerali
La salma di Michele riposa alla casa del Commiato Treccani di Castenedolo in via XV Giugno. I funerali si svolgeranno lunedì 22 dicembre alle 9.
Riproduzione riservata © Giornale di Brescia
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